Il colpo di coda (irrealizzabile) di Joe Biden

Al povero Joe Biden hanno fatto credere che rimarrà nella storia e probabilmente lui si è convinto che sarà così. L’intero universo democratico, quello che lo ha pressato per settimane fino allo sfinimento affinché facesse un passo indietro e non si ricandidasse alla presidenza degli Stati Uniti, ha inculcato nella mente dell’attuale inquilino della Casa Bianca che verrà ricordato come uno dei migliori comandanti in capo degli ultimi decenni. Ovviamente tutti sanno che è una bugia che farebbe arrossire di vergogna anche Pinocchio perché, nonostante abbia attuato alcune riforme non esecrabili come quella della Sanità (ripristinando, almeno in parte, l’Obamacare), sotto molti altri aspetti la sua presidenza è stata un vero e proprio disastro, particolarmente in politica estera. Da questo punto di vista ricalca esattamente i due mandati di Barack Obama, che Biden di fatto ha proseguito con un terzo dopo l’intermezzo quadriennale di Donald Trump: anche Barack veniva descritto dai media amici come il Messia, salvo poi essere ricordato, soprattutto dai cittadini americani, per i catastrofici risultati proprio sul fronte estero. Nonostante ciò, il vecchio Joe si è messo in testa che i prossimi sei mesi che mancano alla fine della sua permanenza alla Casa Bianca non potranno essere occupati dal semplice disbrigo degli affari correnti, ma che è necessario un colpo di coda pirotecnico da lasciare a futura memoria.

Preso atto dell’impossibilità di risolvere la questione russo-ucraina (Zelensky ha già avuto un lungo colloquio telefonico con Trump e pare farà lo stesso con Kamala Harris non appena la convention democratica avrà ufficializzato la sua nomination) come pure quella israelo-palestinese, al vegliardo presidente non restava altro che pensare a qualcosa di eclatante da portare a casa sul fronte interno. Quale migliore idea, quindi, che annunciare una riforma della Corte Suprema? Una genialata che già nel suo complesso enunciato appare come un coacervo di bizzarrie messe insieme a casaccio, infiocchettate per essere poi inserite tutte in un unico emendamento costituzionale. Una sorta di minestrone legislativo da far impallidire i c.d. decreti omnibus di tradizione nostrana. Ma andiamo con ordine.

Nella storia recente americana è accaduto spesso che una decisione della Corte Suprema presa dalla maggioranza politica che l’organo rappresenta in un determinato periodo abbia suscitato le proteste della parte avversa con inevitabili e scontate proposte di riforma della stessa. È accaduto quando la maggioranza dei giudici era stata nominata da presidenti democratici e si è verificato lo stesso quando, di contro, tra i nove componenti del massimo organo giurisdizionale degli Stati Uniti il maggior numero era di nomina repubblicana. Uno dei tentativi più articolati e complessi di riforma della Corte fu quello proposto da Franklin Delano Roosevelt nel 1937, ma di fronte alla levata di scudi dei più influenti e illuminati costituzionalisti dell’epoca anche il presidente eroe di guerra dovette retrocedere e alzare bandiera bianca. Non c’è dubbio che l’idea di Biden sia figlia della decisione che l’attuale Corte, composta da sei giudici nominati da presidenti repubblicani (ben tre da Donald Trump, due da Bush junior e uno ancora in carica nominato da Bush senior) prese nel 2022 quando eliminò il diritto all’aborto a livello federale con una sentenza che ribaltava la storica decisione del 1973 che garantiva l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza su tutto il territorio nazionale statunitense e conosciuta come sentenza “Roe vs. Wade”. L’attuale presidente ne ha fatto addirittura un tema della sua campagna elettorale appena interrotta e aveva citato la questione farfugliando in merito qualcosa di poco comprensibile anche nel disastroso dibattito con Trump di fine giugno. Non solo, a Biden non è affatto andata giù anche un’altra decisione, questa ancora più recente, presa dalla Corte a maggioranza repubblicana e cioè quella riguardante l’immunità giudiziaria conferita ai presidenti per gli atti compiuti nello svolgimento delle proprie funzioni che ha fatto cadere tutta una serie di capi d’accusa nei confronti di Trump nel processo sugli avvenimenti del 6 gennaio 2020. Biden ha annunciato il suo proposito di riforma della Corte Suprema lunedì, mentre era in visita ad Austin, in Texas, alla Lyndon B. Johnson Presidential Library and Museum in occasione del sessantesimo anniversario del Civil Rights Act, la legge che garantì fondamentali diritti civili agli afroamericani emanata proprio sotto la presidenza Johnson. Sleepy Joe, invece di parlare di questo fondamentale risultato di civiltà conquistato dagli Usa nel 1964, ha tediato gli astanti snocciolando i termini della riforma (che più che altro è una serie di misure separate presentate in un’unica soluzione) della Corte Suprema che ha in mente. Una riforma che, va detto con chiarezza, non vedrà mai la luce – almeno sotto la sua presidenza – perché attualmente i Repubblicani hanno la maggioranza dei seggi alla Camera e il Senato è diviso equamente con i democratici. È difficile anche immaginare che Kamala Harris (il vicepresidente nell’ordinamento costituzionale è anche speaker del Senato e il suo voto è spesso l’ago della bilancia), nonostante abbia detto di appoggiare il disegno di Biden, possa votare una riforma così divisiva in piena campagna elettorale.

Entrando nel dettaglio del “minestrone Biden”, esso prevede innanzitutto di limitare il mandato dei giudici della Corte Suprema a diciotto anni (attualmente è a vita), di stabilire un codice etico per il loro comportamento pubblico e di annullare la recente decisone citata poco sopra in merito all’immunità presidenziale. La misura più impattante sarebbe ovviamente la prima, la riduzione a tempo del mandato dei giudici della Corte. La nomina a vita così come previsto dalla Costituzione americana ha fatto sì che negli ultimi anni i presidenti abbiano cercato di nominare giudici sempre più giovani, per rafforzare nel tempo la maggioranza conservatrice o progressista della Corte Suprema. Donald Trump, per esempio, nominò nel 2018 Brett Kavanaugh, cha attualmente ha 59 anni, e nel 2020 Amy Coney Barrett, che ne ha 52: entrambi potrebbero avere ancora decine di anni di servizio. La proposta Biden, invece, prevede che i giudici abbandonino l’incarico dopo 18 anni (che sarebbe comunque il doppio del mandato dei membri della nostra Corte costituzionale) e che, a regime, ciascun presidente nomini un nuovo giudice ogni due anni. Il sistema dovrebbe funzionare, nell’ottica dell’attuale inquilino della Casa Bianca, con un nuovo giudice nominato ogni biennio contestualmente al ritiro di un collega a scadenza di mandato. Secondo i sostenitori della riforma questo garantirebbe sia il ricambio che pluralismo della Corte. Biden ha però omesso due dati essenziali per l’attuazione della sua proposta: anzitutto non ha chiarito come avverrebbe la transizione tra il regime odierno di mandati a vita e quello nuovo a “tempo determinato”, e in secondo luogo non ha specificato cosa accadrebbe ai giudici attualmente in carica. Se, per esempio, il limite di mandato fosse applicato retroattivamente, tre giudici conservatori (Clarence Thomas, nominato nel 1991 da Bush padre, Samuel Alito e John Roberts, nominati nel 2005 da Bush figlio) avrebbero superato i diciotto anni di servizio. Biden non ha chiarito questo punto fondamentale e non ha specificato a chi spetterebbe nominare i tre eventuali giudici subentranti, visto che la riforma da lui appoggiata prevede che ogni presidente nomini al massimo due giudici nell’arco di un mandato quadriennale. Com’era ovviamente prevedibile, molti esperti si sono già pronunciati sulla questione, affermando che la riforma potrebbe generare seri dubbi di costituzionalità.

Insomma, possiamo essere quasi certi che la riforma di Sleepy Joe Biden farà la stessa fine di quella del suo predecessore democratico Franklin Delano Roosevelt: sarà cestinata e tutto rimarrà com’è sempre stato.

Aggiornato il 01 agosto 2024 alle ore 09:17