Come ampiamente previsto, Joe Biden ha “passato la torcia”. Era quanto da settimane gli veniva chiesto a gran voce non solo da decine di dirigenti democratici, parlamentari a rischio riconferma, finanziatori che avevano congelato le proprie donazioni, opinionisti della carta stampata e della televisione, ma anche dagli stessi elettori. Significativi in tal senso i sit-in di fronte i cancelli della Casa Bianca dei giorni scorsi. Il weekend appena trascorso è stato decisivo per la scelta che il presidente ha dovuto dolorosamente compiere. Complice l’isolamento forzato nella sua villa al mare in Delaware a causa del Covid da cui è rimasto nuovamente contagiato nei giorni scorsi, Biden ha tirato le somme per lo più in totale autonomia, come raccontano faccia spesso quando si tratta di prendere decisioni importanti. Il suo stesso staff e i responsabili della campagna elettorale di strettissima osservanza erano all’oscuro di quello che il presidente avrebbe postato nel primo pomeriggio di domenica sul suo profilo ufficiale di X. Pare lo abbiano saputo pochi minuti prima che Potus pubblicasse il comunicato della resa. Anche qui, una novità piuttosto inquietante: un presidente in carica che decide di ritirarsi dalla corsa per la Casa Bianca con un messaggio su un social è alquanto bizzarro, se non addirittura offensivo nei confronti del suo popolo. Dice che parlerà alla nazione più avanti, nei prossimi giorni, ma l’ennesimo scivolone comunicativo è ormai cosa fatta.
Lyndon B. Johnson, quando prese la decisione di non ricandidarsi nel 1968, alzò la cornetta del telefono e convocò rapidamente nello Studio Ovale una troupe televisiva, pochi minuti dopo era in onda in diretta nazionale. Raccontano che la resa incondizionata di Biden sia avvenuta dopo un burrascoso colloquio telefonico avvenuto nei giorni scorsi con Nancy Pelosi, l’ex speaker della Camera che ancora oggi nel partito dell’asinello gode di un potere sconfinato (un deputato dem di primo rango ieri affermava al Washington Post: “Se lei dice sei morto, sei morto”). Nella telefonata che a diverse fonti pare sia stata effettuata nella serata di giovedì, Pelosi sarebbe arrivata subito al sodo: “Presidente, i sondaggi dicono che non puoi farcela”. A quel punto, Biden avrebbe ribattuto: “Quelli che ho io dicono che posso vincere”. Bene, ha risposto l’ex numero uno del Congresso, “passami Donilon (Mike Donilon, consigliere senior del presidente, ndr) e digli di mostrarmi i numeri!”. Mike Donilon non arriverà mai durante quella telefonata, così come i suoi sondaggi. Quelli che però hanno in mano Pelosi e la dirigenza dem sono agghiaccianti: in sette Stati chiave Donald Trump è in testa con vantaggi che oscillano tra il due e il sette per cento: +5,5 punti in Arizona, +6 in Georgia e in Michigan, +6,8 in North Carolina, +4,3 in Pennsylvania, +2,5 in Wisconsin. Com’è andata a finire ormai lo sappiamo. Non appena Biden (o chi per lui) ha messo nero su bianco la sua rinuncia a continuare la corsa per la rielezione, gli stessi che fino al giorno prima sono stati i mandanti del suo assassinio politico si sono sperticati in lodi e apprezzamenti senza ritegno. La stessa Pelosi, ha cinguettato su X che “Biden verrà ricordato come uno dei più grandi presidenti della storia americana”. Insomma, dopo il danno pure la beffa.
Ora però si apre una partita che per molti è già scontata, con la vicepresidente Kamala Harris naturale prosecutrice di un percorso elettorale che si cerca di rendere il meno traumatico possibile, tra le mille incognite di questa prima volta nella storia recente americana in cui un partito è costretto a cambiare candidato a meno di quattro mesi dal voto. Lo scenario che molti definiscono “il più semplice da applicare” non è poi così privo di ostacoli. Harris, soprattutto dopo l’endorsement dello stesso Biden, ha certamente un vantaggio in più rispetto a chiunque altro. Per di più, come vicepresidente in carica, è la scelta più ovvia per un ticket che comunque già portava il suo nome (e questo facilita anche il passaggio dei fondi depositati nelle casse del comitato elettorale). Che la scelta di Harris sia quello a cui stava lavorando ormai da giorni il partito è confermato anche dal fatto che la campagna “Biden for president” si è trasformata su tutte le piattaforme ufficiali in “Harris for president” nel giro di poche ore. Tuttavia, nonostante almeno 500 delegati abbiano già dato adesione alla candidatura della vicepresidente, la situazione non è così facile come sembra. Innanzitutto, tra gli endorsement che sono fioccati nelle ultime ore ne manca uno pesantissimo, quello di Barack Obama, che ieri, nel commentare a caldo la scelta del suo ex numero due ha scritto su X: “Ora si apre uno scenario inesplorato”.
Al possibile mancato sostegno dell’ex presidente va sommato il sicuro no alla candidatura di Harris dell’ala più radicale democratica, quella “no border” che si riconosce nella giovane deputata Alexandria Ocasio-Cortez e che considera Kamala Harris più o meno come una traditrice. Ocasio-Cortez non ha mai dimenticato il primo viaggio di Kamala in Centroamerica, quando la vicepresidente disse: “Non vi vogliamo negli Stati Uniti, restate dove siete, vi aiuteremo a rimanere a casa vostra”. Pressappoco lo stesso motivo, ma con una lettura al contrario, per cui i repubblicani la accusano di non aver dato seguito a quelle parole, consentendo agli immigrati clandestini di entrare nel Paese liberamente. Ed è proprio questo su cui Donald Trump e la sua falange elettorale punta e punterà il dito: “Biden le ha affidato un unico dossier importante in questi anni di vicepresidenza, quello sull’immigrazione, e ha fallito miseramente”. L’immigrazione clandestina è peraltro un tema che in America non viene sentito solo dagli elettori di destra, anzi.
Sia la popolazione afroamericana che i latinos – zoccolo duro della tradizionale base elettorale democratica – vedono in questo il problema fondamentale per la propria sopravvivenza lavorativa: laddove un clandestino lavora in nero a meno di un terzo della paga legalizzata sono ovviamente loro i primi a esserne penalizzati. E se “con l’unico dossier che le è stato affidato ha fallito, figuriamoci cosa accadrebbe se lei divenisse presidente” è ormai il refrain di una campagna repubblicana che si sta rimodulando nelle ultime ore. Un altro fattore fortemente penalizzante per una Kamala Harris candidata alla presidenza è che Biden non ha nessuna intenzione di dimettersi, perciò lei si troverebbe (uso il condizionale perché fino alla convention di metà agosto nulla è dato per scontato) nell’imbarazzante posizione di non poter ripudiare alcune politiche, soprattutto in campo economico e di politica estera, che la base elettorale americana, compresa una non indifferente quota di quella democratica, ritengono sia stata fino a oggi fallimentare. Un esempio su tutti: la guerra a Gaza e il pieno sostegno a Israele, con un elettorato americano, compresa un’ampia fetta di quello tradizionalmente democratico, che è invece filopalestinese.
Disconoscere la linea presidenziale di Biden sarebbe un suicidio, perché è stata la numero due di questa Amministrazione fin dal primo giorno ed è inimmaginabile ipotizzare una campagna elettorale che ripudi scelte prese anche da lei che peraltro sarà in carica come vicepresidente fino all’ultimo giorno anche qualora fosse la presidente eletta il 5 novembre. Un altro problema sono i sondaggi: se Biden si è fatto da parte perché con lui i dem prenderebbero uno schiaffone elettorale pesantissimo, i dati che forniscono a oggi le rivelazioni demoscopiche commissionate da entrambi i partiti su uno scontro diretto tra Trump e Harris non sono più confortanti: su undici sondaggi effettuati da inizio luglio ai giorni scorsi, solo per due la vicepresidente avrebbe la possibilità di battere il tycoon. Infine, le regole. Lo statuto della convention democratica (rivisto l’ultima volta nel 1984) stabilisce che i delegati conquistati da un candidato – in questo caso Biden – che dovesse decidere di rinunciare per motivi di salute, di coscienza o altro, sono da ritenersi liberi da ogni tipo di vincolo. Pertanto l’endorsement del presidente nei confronti della sua vice non è necessariamente detto che porti al travaso integrale del suo 90 per cento di rappresentanti racimolati con le primarie. A questo va aggiunto che nella convention dell’asinello godono del diritto di voto anche circa settecento “super delegati” e cioè una folta schiera di deputati, senatori, governatori e cariche istituzionali dei vari Stati eletti nelle file del partito democratico. Difficile immaginare che tutta l’ala radicale del partito possa votare per Kamala. Sicuramente non si arriverà al record storico delle 120 votazioni che furono necessarie alla convention del 1924 per individuare il (poi perdente) candidato John W. Davis, ma per Harris non sarà di certo una passeggiata di salute conquistare la nomination. Tra i dem sono già in molti a chiedersi: e se la pezza fosse peggio del buco?
Aggiornato il 23 luglio 2024 alle ore 09:41