L’Islam-comunismo e la stanchezza della democrazia

Secondo un sondaggio pubblicato dalla Bild Zeitung e rilanciato da Italia Oggi, per i giovani islamici che frequentano il ginnasio o un istituto professionale nel Land della bassa Sassonia il Corano è più importante della legge tedesca. Il 45 per cento dei ragazzi intervistati è convinto che uno Stato islamico sia la miglior forma di Governo possibile e il 35,3 per cento si dichiara comprensivo verso chi abbia commesso atti di violenza contro coloro che hanno offeso Allah o il profeta Maometto. Per il 31,3 per cento è giustificata in generale anche la reazione violenta contro il mondo occidentale che minaccia i musulmani, mentre il 67,8 per cento ritiene che le regole dettate dal Corano siano più importanti delle leggi tedesche. Inoltre, per il 51,5 per cento solo l’Islam è in grado di risolvere i problemi del nostro tempo.

Trattandosi di un sondaggio condotto dal Kriminologische Forschung Institut (Istituto di ricerca criminologica), non c’è motivo di dubitare della sua attendibilità, anche perché in fondo rimarca un fenomeno che non si discosta molto da quanto un comune cittadino europeo può comunque riscontrare in base alla sua esperienza e alle sue conoscenze. Considerando che si tratta di risposte formulate a freddo, senza cioè particolari pressioni ambientali, si può facilmente immaginare come potrebbero essere state in un periodo di stress socio-culturale maggiore, come per esempio se i giovani intervistati si fossero trovati costretti a operare una scelta tra le leggi di uno Stato laico e democratico e quelle dettate dal Corano, in un frangente storico in cui la propria comunità religiosa di riferimento fosse stata impegnata in un conflitto con quello Stato.

Quanto emerge anche da questo sondaggio conferma un’impressione più generale, e cioè che quando gli islamici – anche quelli più moderati, che vorrebbero in fondo solo poter vivere in pace nel rispetto dei dettami della propria fede religiosa – vengono sottoposti dagli islamisti radicali a un ricatto del tipo “prendere o lasciare”, “o con l’Islam contro gli infedeli o contro l’Islam”, anche i “moderati”, di fronte a un simile aut aut, nella quasi totalità dei casi scelgono di stare dalla parte degli islamisti, che sono spesso terroristi supportati da regimi teocratici più o meno cruenti nella repressione di ogni dissenso interno.

Tali regimi in passato si sono dati spesso il cambio nel prendere l’iniziativa contro lo Stato ebraico e l’Occidente nel suo complesso: sciiti e sunniti, l’Iran e l’Irak, al-Qaeda, l’Isis o Hamas hanno di volta in volta, nel corso degli ultimi decenni, assunto l’iniziativa per attestarsi come i principali punti di riferimento nella lotta dell’Islam contro Israele e i suoi alleati, fino a costringere spesso l’Occidente a una reazione che avrebbe preferito evitare, sia per motivi geopolitici sia per motivi economici. Così, dopo la nascita dello Stato d’Israele, il conflitto latente del mondo islamico con quello democratico occidentale è progressivamente cresciuto fino a diventare sempre più instabile e pericoloso. In particolare, dopo l’arrivo nelle case delle famiglie arabe prima delle tv satellitari e poi di internet, il mondo occidentale, con i suoi liberi costumi, è in pratica entrato suo malgrado in quelle case e lì ha in pratica iniziato a bestemmiare Allah, nel senso che ha iniziato a mostrare comportamenti e stili di vita che potevano suonare alle orecchie islamiche solo come bestemmie pronunciate da miscredenti.

Questa circostanza del tutto nuova ha moltiplicato esponenzialmente le occasioni di contatto e di conflitto tra due mondi che fino ad allora avevano saputo convivere, conservando tra loro una certa distanza rassicurante per entrambi. Dopo l’arrivo delle tivù satellitari e di internet si è infatti configurata una sorta di inerziale colonialismo mediatico alimentato dallo stesso desiderio delle popolazioni islamiche di godere del benessere e della tecnologia diffusi nel mondo occidentale; benessere e tecnologia che erano però, al tempo stesso, un’espressione di valori e stili di vita in aperto conflitto con i principi della religione mussulmana e con la sua visione teocratica della società. Per risolvere questa chiara contraddizione, non restava che penetrare in quello stresso mondo con l’intento di eroderne le fondamenta culturali e di rovesciarne le istituzioni politiche, così da potersi impadronire del suo benessere senza venir meno ai propri obblighi religiosi e anzi potendo acquisire dei meriti in tal senso. Questa doppia esigenza si è così manifestata in due modi tra loro molto diversi, ma in grado di supportarsi a vicenda: da un lato incoraggiando l’emigrazione in Europa per entrare nelle disponibilità di quei beni e di quel tenore di vita; e dall’altro tenendo sotto pressione Israele quale nemico storico privilegiato e gli Stati Uniti come simbolo di una visione del mondo esecrabile, cercando di polarizzare e far coalizzare il mondo islamico contro di loro.

Quest’aspetto della situazione ha contribuito così a ridare un nuovo slancio e una nuova energia alla Jihad, in forme fino ad allora sconosciute, che hanno forse il loro punto di svolta più significativo nell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001. Il termine arabo Jihad può infatti avere due significati, tra di loro compatibili e non contraddittori: da un lato, in senso “alto”, può essere inteso come “sforzo” verso un miglioramento spirituale e intellettuale del credente attraverso lo studio dei testi sacri e l’esercizio dell’autocontrollo. In quest’accezione non implica alcuna guerra santa di tipo fisico o materiale, ma solo la tensione verso se stessi e la propria comunità di riferimento necessaria per conseguire un automiglioramento individuale e collettivo. Accanto a questo significato “alto” del termine, che include anche esortazioni alla pazienza e alla compassione, esiste tuttavia un’accezione più materiale, che allude a una funzione auto-difensiva verso gli attacchi di miscredenti. Questa accezione più aggressiva è risultata prevalente nella seconda metà del ventesimo secolo e nei primi anni del ventunesimo, cioè proprio subito dopo l’impatto implicitamente colonizzatore dei media occidentali nel mondo islamico, e ha prodotto l’attività terrorista verso gli Stati uniti, l’Europa e Israele di al-Qaeda, dell’Isis e di Hamas. Nonostante le diverse modalità adottate, quest’aggressione alle democrazie occidentali è stata intrapresa in tempi diversi sia dai sunniti che dagli sciiti, e con risultati in grado di destabilizzare gli equilibri geopolitici mondiali, perché si sta sviluppando in una doppia modalità: come un attacco di tipo terroristico contro le società occidentali; e come una battaglia culturale che si svolge dietro le linee e che tende a incrinare l’adesione dei cittadini ai valori della civiltà politica cui appartengono.

Quanto sta accadendo in molte prestigiose università di tutto il mondo occidentale, ma anche nelle strade e nelle piazze, è un eloquente esempio di questa battaglia culturale portata avanti dall’Islam politico, che sembra essersi ormai dissociato dai metodi dell’Isis o di al-Qaeda perché non li ritiene più razionali rispetto allo scopo. Come sosteneva profeticamente dagli schermi di Al Jazeera già nel 2007 Youssef al-Qaradawi, un famoso teologo musulmano sunnita e qatariota di origine egiziana, la conquista di Roma non si farà con la guerra, “non è necessario. C’è una conquista pacifica (…) prevedo che l’Islam tornerà in Europa senza ricorrere alla spada”, ma “attraverso la predicazione e le idee”.

La strategia per realizzare questo proposito ormai non troppo velato è ben illustrata da Giulio Meotti su Il Foglio del 13 maggio scorso: “Tra Qatar e Arabia Saudita è in corso non solo una guerra per la supremazia del mondo islamico, ma soprattutto per influenzare l’Occidente”. Una simile influenza passa dall’acquisizione di compagnie telefoniche a quella del dieci per cento dell’aeroporto di Londra, Heathrow, ma si concentra specialmente sull’istruzione e sull’Università, quasi che sauditi e qatarioti avessero compreso quanto Antonio Gramsci aveva da tempo spiegato bene a tutti, e cioè che per conquistare il potere in una democrazia occidentale è necessario conquistarvi prima una vera e propria egemonia culturale.

“Il Qatar – scrive Meotti – ha il nono fondo sovrano più grande del mondo e il fondo saudita è il sesto. Sono gli unici al mondo ad avere simili ricchezze con cui influenzare le università occidentali, dall’Italia al Canada, dove i qatarini hanno dato un milione alla McGill University”. In Inghilterra il fenomeno non è meno evidente e preoccupante: “Otto università britanniche da sole hanno ricevuto più di 233 milioni da regimi islamici”. Nel St Antony’s College di Oxford, per esempio, pare che il 70 per cento dei corsi sia foraggiato dai regimi islamici, e non è quindi un caso che docenti e studenti si dimostrino a ogni occasione ostili verso l’Occidente e Israele.

Questa seconda modalità di conquista dell’Europa e dell’Occidente imperniata sull’acquisizione di un’effettiva egemonia culturale non potrebbe avere però alcuna possibilità di successo senza l’alleanza, prima silenziosa ed implicita, e poi sempre più aperta ed esplicita, tra il mondo islamico e quella parte di opinione pubblica occidentale che, in modo più o meno consapevole, si serve ancora di categorie di tipo marxista per interpretare la società e la storia. Quello che oggi viene definito islam-comunismo – con un termine che ha sicuramente il merito di rendere succintamente l’idea di quanto sta accadendo – è proprio il risultato di questa alleanza tra vecchi paradigmi teorici di estrazione marxista e la vocazione del mondo islamico ad appropriarsi del benessere del mondo occidentale senza accettarne i valori costitutivi, ma anzi cercando di eroderli dall’interno per penetrare massicciamente in tali società e poter un giorno prendervi il potere, come l’Islam cerca di fare dovunque sia presente per poter dare corso al pieno rispetto del Corano.

Dal punto di vista degli epigoni contemporanei di un marxismo che non ha mai fatto una seria analisi dei suoi errori – da più parti evidenziati, spesso accanto al suo contributo importante per la comprensione della società e della storia – questo tentativo di erosione è perfettamente giustificato: le condizioni di povertà di quelle popolazioni islamiche sono infatti dovute – secondo la loro concezione – al colonialismo delle società capitalistico-borghesi, allo sfruttamento da queste perpetrato ai danni dell’Africa e dell’Asia, e non alle condizione di svantaggio climatico, religioso e culturale che ne ha determinato per secoli una più scarsa crescita economica e una più lenta elaborazione di valori e conoscenze.

Il desiderio di riscatto dei popoli di questi continenti e di tutti quelli sfruttati, anche in America Latina, sarebbe dunque, per gli islam-comunisti, un giusto ancorché tardivo risarcimento per il torto subito. Questa circostanza non solo conferirebbe a chi è nato nelle zone meno fortunate ed economicamente più depresse del mondo il diritto di venire a vivere nei Paesi che hanno storicamente determinato le loro indigenza, ma anche di farlo nei modi, all’occorrenza anche violenti, che sono compatibili con la Jihad, ovvero minacciando con fatwe planetarie intellettuali scomodi oppure provocando le forze dell’ordine per le strade e nelle piazze delle città europee insieme a quei giovani “marxisti immaginari”, come furono definiti ormai molti anni fa (1975) da Vittoria Ronchey, che mostrano in questi giorni di condividere gli obiettivi di Hamas.

Il tentativo di coinvolgere una parte sempre più estesa di popolazione in una rivolta complessiva contro la società capitalistico-borghese, che era molto in voga negli anni Settanta, ha ripreso così di nuovo vigore, ma questa volta con un potenziale distruttivo che potrebbe rivelarsi di gran lunga più efficace. L’analisi marxista sembra infatti capace di fornire l’alibi perfetto per qualsiasi occupazione fisica dell’Occidente da parte della seconda religione al mondo per numero di seguaci, come risulta statisticamente probabile nell’ipotesi di aprire le frontiere europee e proiettando le lancette dei flussi migratori e demografici in avanti di una ventina di anni. Quest’occupazione, tuttavia, non solo non sarebbe illegittima, ma costituirebbe semmai una forma di risarcimento storicamente dovuto, oltre che fornire una prova della correttezza delle previsioni di Karl Marx. Non sarebbe vero, infatti, come sostengono i suoi detrattori, che la società capitalistica non abbia prodotto una proletarizzazione dei ceti medi, al contrario di quanto previsto dall’autore de Il Capitale: se nella società industrializzata questa proletarizzazione non vi è stata è solo perché lo sfruttamento è avvenuto altrove. Ed essa si è verificata fuori dai confini dei paesi capitalistici, in virtù, come annunciato da Lenin, della loro vocazione intrinsecamente imperialista. Il desiderio di quei popoli di godere di parte dei beni loro sottratti mediante la colonizzazione e lo sfruttamento sarebbe dunque perfettamente lecito, così come la loro pretesa di vivere in quelle società senza rinunciare a seguire i dogmi della propria religione e della sua vocazione teocratica, evidentemente incompatibile con i principi salienti della liberaldemocrazia.

L’alleanza tra l’Islam e i persistenti paradigmi marxisti nelle società e nelle università occidentali sembra dunque funzionare a dovere e questa circostanza, che avrebbe fatto inorridire gli stessi Marx ed Friedrich Engels, non turba più di tanto i diffusori di un marxismo immaginario. Per gli autori del Manifesto del Partito comunista, infatti, la proletarizzazione dei ceti medi si sarebbe dovuta verificare nella società capitalistica solo quando i mezzi di produzione si fossero adeguatamente sviluppati, provocando così il rovesciamento dei rapporti di produzione che la caratterizzano, e la successiva rivoluzione si sarebbe potuta verificare solo in una società altamente industrializzata, e non in una agricola (come, ad esempio, in quella russa del 1917) o precapitalistica. Per i marxisti solidali con Hamas, tuttavia, le società dove si verificherà la presa del potere islamico sono in effetti industrializzate: solo il loro sfruttamento di uomini e territori è stato delocalizzato, e quindi è comprensibile e giusto che coloro che sono stati sfruttati si riprendano ciò che è stato loro sottratto, incluse le risorse ambientali di cui hanno pieno diritto di chiedere conto.

Gli stessi marxisti convertitisi all’islam-comunismo sembrano poi considerare un dettaglio trascurabile il fatto che il tipo di Stato che dovrebbe scaturire dalla nuova alleanza da loro auspicata non potrebbe essere laico. Il nuovo tipo di rivoluzione – che dovrebbe generarlo – non avrebbe più come obiettivo primario l’instaurazione di una società senza classi, ma piuttosto quello di una società sostanzialmente teocratica, che verrebbe quindi realizzata per motivi religiosi, in barba alla superata credenza di Marx e di Lenin per cui la religione sarebbe l’oppio dei popoli e non favorirebbe alcun sviluppo della coscienza di classe.

È dunque chiaro che l’alleanza tra la religione islamica e il marxismo nebulizzato che è rimasto nell’aria dagli anni Settanta è un’alleanza strumentale e pretestuosa, che si basa solo due momenti condivisi: il disprezzo o addirittura l’odio per le liberaldemocrazie occidentali e il desiderio di rivalsa che, per motivi diversi, entrambi provano verso quel tipo di società. Questo comune stato d’animo è a sua volta connesso con la diffidenza profonda che movimenti politici, ideologie o religioni di massa possono nutrire verso il senso di responsabilità connesso all’esercizio della libertà individuale, dato che questo senso di responsabilità non è invece richiesto per eseguire alla lettera i protocolli necessari a far funzionare società teocratiche o totalitarie, nelle quali non solo esso non è richiesto, ma dove è anzi avvertito come un elemento destabilizzante, implicitamente critico e dunque pericoloso, da tenere a bada e controllare in modo capillare.

L’ideale desiderio d’uguaglianza nei diritti e nelle possibilità, e dunque il desiderio di una società globale più giusta, nell’ottica dei comunisti islamizzati può quindi trovare soddisfazione solo abbattendo lo stato democratico-borghese per instaurarne uno teocratico-totalitario, in cui i due partecipanti all’alleanza pangenetica possano conquistare, almeno virtualmente allo stesso tempo, l’acceso al paradiso islamico e alla società senza classi, spartendosi le spoglie delle malvagie plutocrazie occidentali o, volendo usare un linguaggio più ortodosso e meno fascista, dei Paesi capitalisti.

Certo, guardando come si viveva in Iran, in Afghanistan o in altri Paesi islamici negli anni Sessanta, quando le ragazze potevano andare in giro con le gonne corte e il viso scoperto, non è difficile immaginare dove possa condurre un’alleanza tra questi novelli marxisti immaginari e l’Islam. Entrambe le componenti di questa nuova alleanza antidemocratica e antiliberale condividono tuttavia l’elemento che può tenerla salda per il tempo necessario a prendere il potere in Occidente: il comune diniego di quelle libertà fondamentali che si cerca di confiscare ad altri, e che esime anche dal doversi sentire responsabili di fronte a entità diverse da quelle della propria religione o della propria ideologia.

Il sollievo liberatorio che deriva dal mancato esercizio della propria libertà, e dunque anche del proprio senso di responsabilità, l’illusione di poterla realizzare compiutamente nel riscatto di una comunità religiosa o politica in quanto “massa”, è oggi alla base delle migliaia di manifestazioni in supporto di Hamas (a cui opportunisticamente abbinata la bandiera della Palestina) che hanno sfilato dopo il 7 ottobre 2023 per le strade di molte città occidentali. Le caratteristiche culturali, religiose e politiche di tali manifestazioni danno vita a un ibrido pericoloso, destinato comunque a collassare, ma in grado di sovvertire qualsiasi società liberaldemocratica che non creda autenticamente nei propri valori fondamentali.

Quest’alleanza collasserà perché mentre molti giovani manifestanti vorrebbero realizzare una società ad alta entropia, l’Islam politico vuole il contrario: essendo più forte e determinato rispetto a masse animate dal desiderio – come lo avrebbe definito Herbert Marcuse – di una diffusa “desublimazione repressiva”, alla lunga l’Islam politico, che ha fede in qualcosa d’immutabile e trascendente. E dunque di assai meno fragile e caotico, può solo sottomettere quei giovani, utilizzando i loro sogni per realizzare i propri scopi totalitari.

Non sarebbe la prima volta. Ma ognuna delle due componenti di questo ibrido culturale e politico cerca di usare l’altra, e l’esito della loro complicità potrebbe essere favorevole solo a quel tipo di cultura che è capace di far nascere più di 10 figli per ogni coppia e non a chi tende invece a favorire la detanalità. Prima di collassare, tuttavia, questa strategica alleanza sul campo potrebbe vincere, e anzi vincerà sicuramente su delle democrazie stanche se queste non ritroveranno presto la piena consapevolezza della razionalità dei propri valori, insieme alla rinnovata fiducia di poter realizzare gradualmente forme di convivenza sempre più libere e giuste, capaci costruire una società globale tesa a porre ogni essere umano in condizione di vivere una vita degna di essere vissuta.

Aggiornato il 24 maggio 2024 alle ore 09:59