Caro Macron, à la guerre comme à la guerre

Di Emmanuel Macron abbiamo pensato e detto tutto il male possibile. Reputiamo pericolosa la sua smania di protagonismo sulla scena globale. Protagonismo fatto non di buone idee concilianti ma di ridicoli rigonfiamenti di petto, reiterati allo scopo di mostrare una potenza muscolare francese che nella realtà non esiste da lunga pezza. Anche la recente dichiarazione sulla possibilità che l’Unione europea debba inviare truppe in Ucraina suona più come la spacconata di un bullo di periferia che come la pacata riflessione di uno statista. Nondimeno, le sue parole devono essere valutate con freddezza perché, al punto in cui siamo, anche la più stupida delle dichiarazioni – resa nel momento sbagliato, nel luogo sbagliato – può innescare l’apocalisse.

Macron propone di intervenire al fianco dell’Ucraina contro la Russia in uno scenario di guerra convenzionale. Ma chi ci assicura che la controparte stia al gioco e non decida invece di chiudere la partita ricorrendo all’arma nucleare? Facciamo conto, per un momento, che il “piccolo Napoleone” l’abbia vista giusta, che una guerra di tipo Otto/Novecentesco – strutturata sull’impiego prevalente di fanterie e artiglierie da guerra di posizione – sia ancora possibile. Come pensa di procedere il pugnace Macron? Se si dà credito alla classifica annuale stilata dal sito indipendente “Global Firepower” sulle capacità militari di 145 Paesi al mondo, riguardo all’Europa la Gran Bretagna occupa il sesto posto della graduatoria mentre l’Italia è al decimo. Fatto curioso è che la Francia sia quotata alle spalle dell’Italia. Ai primi posti della classifica – oltre allo scontato primato statunitense davanti alla Russia e alla Cina – si collocano nazioni quali l’India, la Corea del Sud, il Giappone, la Turchia, il Pakistan. Bisogna scendere un bel po’ in graduatoria per scorgere la presenza di altri Paesi dell’Unione europea, Germania compresa. A dare ascolto a Gianandrea Gaiani – esperto in materia di Difesa – gli eserciti europei dispongono mediamente di qualche centinaio di carriarmati (dai 150 dell’Italia ai 330 della Germania) che, se contrapposti alla potenza di fuoco dei sistemi d’arma russi, durerebbero poche settimane sul terreno ucraino. Peraltro, non sarebbero facilmente sostituibili visti i tempi lenti di produzione dell’industria della Difesa nelle nazioni europee. Tempi imparagonabili con quelli dell’industria bellica russa la quale, oggi, assicura la produzione mensile di 100 missili da crociera, oltre a disporre di un potenziale d’attacco di oltre 1000 missili pronti all’impiego. Il tutto senza valutare l’apporto che stanno offrendo alla Russia potenze belliche quali l’Iran e la Corea del Nord in termini di approvvigionamento di sistemi d’arma.

In Europa, le scorte di munizioni indispensabili per combattere in Ucraina darebbero alle forze occidentali un’autonomia sul campo non superiore a una/due settimane. Riarmare gli eserciti costa. È la politica rinunciataria praticata in Occidente negli ultimi decenni che ha portato alla luce la disperante impreparazione del Vecchio continente a fronteggiare le sfide del presente. Anni di falso ottimismo progressista hanno permesso che le opinioni pubbliche europee cascassero nel tragico inganno di ritenere che davvero la storia fosse finita (tesi Fukuyama) con la caduta del comunismo connessa all’avvento della globalizzazione e alla definitiva affermazione, nel mondo, della democrazia liberale collegata a un’economia di mercato. La storia vissuta si è incaricata di smontare l’utopia e di restituire alle future generazioni la memoria invariata di un’umanità desiderosa di tornare alle differenziazioni identitarie e all’ancestrale pulsione a preferire la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie a tutti i livelli all’interno delle aggregazioni umane e tra queste ultime, a tutte le latitudini.

Tornando a Macron, stupisce che prima di lanciarsi in improvvide dichiarazioni a sfondo bellicista non si sia chiesto se l’apparato industriale europeo fosse in grado di reggere l’impatto dell’aumento esponenziale della domanda di riarmo proveniente dagli Stati membri Nato. Ancora una volta ci fidiamo di Gaiani il quale – in un’intervista a La Verità – spiega come stiano realmente le cose. Per fare un esempio: l’efficientissima industria tedesca ha ricevuto nel maggio 2023 una commessa per la costruzione di 18 carriarmati Leopard. Tempi stimati di consegna all’esercito tedesco: anno 2026. Dov’è che vogliamo andare? In guerra? Cerchiamo di non farci ridere dietro dall’universo mondo. Quasi tutti i Paesi Nato – Italia compresa – hanno difficoltà ad allinearsi alla decisione, condivisa in sede assembleare nel 2014, di destinare alle spese militari il 2 per cento del Pil iscritto al bilancio di ogni Stato membro dell’Alleanza. Secondo fonte Ispi (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), i più attivi in Europa sulla spesa per il riarmo sono la Finlandia, la Svezia, la Lituania e la Polonia, perché percepiscono come si faccia più pressante la minaccia russa ai loro confini. Vi è anche da considerare che non tutti gli investimenti sulla Difesa possono essere destinati al fronte ucraino. Vi sono in giro per il mondo innumerevoli falle da tappare per evitare che fuochi isolati contribuiscano alla propagazione dell’incendio globale. In Africa la perdita di presa delle potenze occidentali sulle ex-colonie procede di pari passo con l’espansione, nei medesimi luoghi, della presenza russo-cinese. Anche l’implementazione dei piani di sviluppo e di cooperazione con le nazioni del Terzo mondo – come l’italiano “Piano Mattei” – necessita di un supporto militare per produrre benefici apprezzabili presso i Paesi partner.

Parliamo di noi. Se tutti i sistemi d’arma che, a costo di immensi sacrifici economici degli italiani, l’Italia riuscisse a procurarsi venissero girati alla causa ucraina o, peggio, impegnati dalle nostre forze di difesa per un conflitto diretto con l’esercito russo, come si proteggerebbe il Paese da altre potenziali minacce? Eppure, Macron, benché offra una soluzione sbagliata, coglie comunque un aspetto realmente problematico della crisi in corso. Per com’è messa la situazione sul campo di battaglia, non si può continuare sulla strada intrapresa. Da un lato, gli alleati di Kiev si stanno svenando per assicurare le forniture d’armi richieste dal vertice istituzionale ucraino; dall’altro, risultati confortanti non se ne vedono. Al contrario, l’Ucraina sta perdendo la guerra. La stupidaggine in base alla quale aiutare con più armi Kiev avrebbe prodotto un riequilibrio tra le forze sul campo, è stata clamorosamente smentita dai fatti. La cruda verità è che non bastano le armi, anche quelle tecnologicamente all’avanguardia, per sconfiggere il nemico. Servono tantissimi uomini e donne per azionare i sistemi difensivi/offensivi. Ed è proprio la risorsa umana che scarseggia nel campo ucraino. I russi, forti della superiorità numerica, avanzano lentamente ma a ritmo costante. La conquista dell’intera regione del Donbass non è più una fantasia. Ragione per la quale ucraini e alleati possono scordarsi di ricacciare il nemico oltre la frontiera. Adesso il problema è di evitare che l’armata russa raggiunga Kiev. Per evitare la catastrofe è giunto il momento di virare verso un negoziato per il cessate-il-fuoco nella consapevolezza che, per l’incapacità dei governanti occidentali di “leggere” la realtà, è Vladimir Putin ad avere nelle mani le carte migliori.

Una buona dose di sano pragmatismo non guasterebbe per convincersi che non è aumentando la posta che ci si rifà delle perdite subite. Purtroppo si dovrà attendere la chiusura delle urne delle Europee per sperare che chi ha spinto l’Occidente a infilare la testa nel capestro rinsavisca e scelga di cambiare approccio con Mosca. Il timore più grande è che neanche il responso delle urne continentali basterà a risvegliare l’Europa dall’incubo nel quale è sprofondata. Occorrerà che altre urne mostrino la strada maestra per cavarsi d’impaccio. Sono quelle delle presidenziali statunitensi, programmate per la prima settimana di novembre, che potranno segnare il vero punto di svolta nella crisi russo-ucraina. Mancano sei mesi perché lo sfratto dalla Casa Bianca di Joe Biden – principale responsabile del pasticcio ucraino – divenga esecutivo. Potrebbero essere troppi visto che, nel frattempo, Mosca prosegue spedita sulla sua traiettoria strategica. L’unico augurio che possiamo fare a noi stessi per tirarci su di morale è di non dover scoprire a nostre spese una verità assai indigesta: che non è vero che una volta toccato il fondo si possa soltanto risalire. Esiste un’altra possibilità per dimostrare che al peggio non c’è mai fine: si può sempre scavare.

Aggiornato il 08 maggio 2024 alle ore 10:33