È probabile, anzi, molto probabile che Vittorio Sgarbi non abbia bisogno di “difese” più o meno ufficiali. Anzi, qualsiasi difesa a suo favore potrebbe apparire pro domo sua per ragioni anche e soprattutto di schieramento. Prima ancora che culturali. Ma le cose sono, come si scrive troppo inutilmente benché troppo frequentemente, ben diverse.
L’impressione è che nel mirino della politica sia stato spinto (lui poi!) proprio da motivazioni squisitamente “politiche” che vanno ben al di là della “sua” politica culturale. E parliamo certamente di politica “liberale” la sua che, non a caso, è riuscita a risvegliare una certa attenzione con polemiche persino dalla destra. Per decenni “in sonno” a proposito, appunto, di istituzioni culturali. Che sono il braccio esecutivo in quel settore di chi governa. A tutti i livelli.
Perché diciamo tutto questo? Perché da anni se non da sempre si è sostenuto e si sostiene che la cultura sia un’esclusiva della gauche, qui da noi, dal teatro al cinema alla letteratura, ecc.. C’è ovviamente del vero, e anche molto, in una simile convinzione causata dai limiti di una destra imposti anche e innanzitutto dalla sua collocazione e, di frequente, dalla sua cosiddetta “indifferenza” per le dinamiche non propriamente politiche. È vero, e la destra lo sapeva (e lo sa) benissimo.
C’è stata una sorta di autoesclusione della quale, peraltro, se ne sono approfittati, fino a farne indigestione, i politici di sinistra che hanno usato con tecniche “immortali” democristiane un tipo di politica spesso finalizzato alla occupazione di poltrone e rimproverata come clientelare proprio da quella (o meglio, questa) sinistra che oggi tuona esattamente contro l’occupazione dei posti ad opera della droite. Sembra un gioco dei quattro cantoni, come si diceva una volta, ed è invece un’estesa e frequente politica peraltro funzionale a quella occupazione.
È legittima, ovviamente, qualsiasi critica – come del resto è legittima dal punto di vista per così dire giudiziario – a una spartizione di posti perché “implorata” (se non obbligata) dal nostro sistema, a cominciare da quello basso dei Comuni e intermedio delle Regioni.
Ciò che invece è peggio di qualsiasi delegittimazione prepotente è la pretesa di occupare tutto e subito con amici fidati. Spesso non all’altezza della nuova carica e, per certi aspetti, “presi dalla strada”. Cioè dalla propria “dipendenza”!
Intendiamoci, chi conquista la maggioranza, anche in un grande Comune, deve assumere decisioni, spesso passando dall’assemblea che, altrettanto spesso, viene invece bypassata dal potere esecutivo (salvo posticipata presa d’atto) per la collocazione di persone amiche e quasi sempre di partito nei Consigli di amministrazione e quindi dei direttori generali negli enti, compresi quelli culturali. Come sempre, a seconda della sistemazione a cominciare dai Cda, la scelta “politica” è tale e giustificativa di tutto e di tutti col presupposto, appunto, di essere maggioranza, e non solo nella giunta ma dunque anche negli enti, del Comune o della Regione.
Nessun concorso quindi per questi nominati che saranno invece chiamati, di lì a poco, ad essere presidenti e componenti di commissioni per la nomina di amministratori in una sorta di gioco dei quattro cantoni che è quasi sempre “giocato” da quelli che una volta si chiamavano gli addetti ai lavori. Per eleganza si ometteva la parola più vera: lottizzazione. E il bello è che si dava la colpa al sistema elettorale proporzionale; colpevole appunto della più brutale e nefanda spartizione di “posti” (e non solo), donde le critiche feroci contro la Prima Repubblica, e si aggiungeva: dei partiti.
E invece, anche oggi, basterebbe un concorso con titoli ed esami. Altro che critiche a uno Sgarbi. Che di cultura se ne intende, e di molto.
Aggiornato il 23 gennaio 2024 alle ore 09:47