Meloni e quei (pochi) fischi a Forlì

Diciamo che prima o poi tocca a chi governa (e non solo) il battesimo (o controcanto) della giustizia. Anche e specialmente quando le urne sono vicine. Ci sono partiti, anzi ex partiti – nel senso che non ci sono più, come il Partito socialista italiano di Bettino Craxi – che sono stati letteralmente annientati da una “violenta” giustizia la quale, peraltro, ha fatto dell’Italia dei tanti partiti (come si diceva una volta) il Paese senza queste associazioni, eccetto Forza Italia e il Partito democratico. Vista con gli occhi odierni, l’azione della notissima (allora) Mani Pulite non dovrebbe aver rappresentato, come tutti sappiamo, il cataclisma distruttivo di quasi tutti i movimenti politici, salvandone – è proprio il caso di dirlo – l’erede di quel Partito comunista italiano che aveva goduto di finanziamenti in soldoni (e altro) da una nazione nemica e potente come l’Urss, da Joseph Stalin a Michail Gorbaciov.

Aggiungiamo, fuori dal seminato, che prima o poi tocca sempre il battesimo del fuoco. Ai partiti e ai loro leader. Ci riferiamo alla premier che, in visita a Forlì con l’amica e presidente della Commissione dell’Unione europea, Ursula von der Leyen, ha avuto quello speciale e niente affatto raro battesimo dei fischi in piazza. In realtà, pochi, pochissimi. Eppur significativi. Diremmo, anzi, che la scarsa quantità era ed è visibile in tutti i media, anche se parecchi di questi hanno pubblicato la notizia non in grassetto ma in corpo normale. Ignorando ciò che fecero, sempre ai tempi di Craxi e della Democrazia cristiana, con titoli in prima pagina con il solito ritornello “vai avanti Di Pietro!”. Nessuna polemica, ci mancherebbe altro. E, soprattutto, nessun giudizio su quantità e qualità di un dissenso a suo modo assai contenuto. Ma, insomma, non c’era la solita entusiastica accoglienza. Succede.

Non ignoriamo che è un fatto accaduto in quella Romagna che già ai tempi del Duce costui tentava in tutti i modi di evitare, non avendo nel seguito la forte componente dell’applauso, del braccio alzato, del viva il Duce. Probabilmente Giorgia Meloni era convita non tanto di una accoglienza strepitosa quanto, piuttosto, dell’entità e della qualità dell’incontro che aveva in sé, tutto sommato, le stigmate della normale messa a disposizione di risorse per popolazioni già sottoposte a una vicenda amara e costosa. Con in più la presenza di una leader europea come von der Leyen. Questo infatti è il punto. E quando ci si rivolge a popolazioni in (perenne) attesa il gioco (dell’accoglienza con applausi) non vale la candela. Nel senso che non si possono attendere gli applausi o giù di lì. Era naturale che una visita doppiamente presidenziale – giacché Ursula von der Leyen è una presidente europea di non piccolo calibro – suscitasse insieme alle attese anche qualcos’altro (per intenderci, risorse vere e sonanti). E dobbiamo tra l’altro mettere in evidenza che il Governo aveva stanziato non pochi milioni ad hoc. Il fatto è che non sono arrivati. Da qui i malumori sfociati in qualche fischio,

Questa storia è per molti aspetti esemplare, nel significato più letterale del termine. Soprattutto perché una premier, prima di andare in visita in quelle terre, doveva pure informarsi della situazione finanziaria, per così dire. Ben sapendo che ai tempi della sua ferma, fermissima opposizione, era un tema ricorrente in comizi infuocati, con tanto di critiche sui ritardi “vergognosi a un popolo che attende invano”. Ma c’è un altro fattore che gioca una partita a dir poco storicamente indegna per una democrazia evoluta come la nostra. Ed è la complessità di un sistema che complica se stesso e danneggia le popolazioni interessate, con un impressionante cumulo di pareri, da un Ente all’altro, da un ufficio all’altro. Intanto il popolo aspetta. E fischia.

Aggiornato il 19 gennaio 2024 alle ore 10:14