Quando la parola pace nasconde l’ideologia della resa

Giocare a fare i pacifisti è mestiere pericoloso. Come europei, ci siamo fatti incantare dai piagnistei palestinesi per il comportamento dei “cattivi” israeliani, colpevoli ai loro occhi di coltivare l’assurda pretesa di liberare gli ostaggi catturati dagli infami assassini di Hamas durante il blitz del 7 ottobre. Non c’è stato nell’Unione europea chi abbia detto a chiare lettere che il Governo di Benjamin Netanyahu stesse facendo la cosa giusta dando la caccia senza quartiere ai terroristi di Hamas, incistati a Gaza. Tutti prudenti. Tutte le voci che contano colpite da una sospetta afonia. Qual è stato il risultato di una politica europea ambigua, che si sforza di tenere il piede in troppe staffe? Prima, l’indegno spettacolo del deferimento dello Stato d’Israele alla Corte internazionale di giustizia - organo giudiziario delle Nazioni Unite - con l’accusa di atti di genocidio ai danni della “innocente” popolazione di Gaza; dopo, la mobilitazione delle milizie sciite filo-iraniane degli Houthi nello Yemen per colpire le navi mercantili dei Paesi occidentali, amici di Israele, in transito nello Stretto di Bab el-Mandeb e dirette al Canale di Suez.

Ora, se della prima vicenda non c’è di che preoccuparsi visto che si tratta di una pagliacciata messa in piedi nell’ambito di quell’organismo inutile che risponde al nome di Onu, la seconda invece avrebbe dovuto far fare un balzo dalla sedia ai governanti europei perché è potenzialmente devastante. Qui entrano in gioco giganteschi interessi economici, destinati a ripercuotersi pesantemente sul futuro delle comunità del Sud Europa. In particolare, sull’Italia. Perché? Il piano terroristico dei criminali yemeniti mira a scoraggiare, fino ad azzerarlo, il traffico marittimo commerciale in transito, nel Mar Rosso, per e da l’Oriente e il Mediterraneo. Non è questione marginale. Adesso che le compagnie di navigazione stanno decidendo, per ovvie ragioni di sicurezza, di dirottare il traffico marittimo dalla rotta Golfo di Aden-Mar Rosso-Suez a quella atlantica che prevede la circumnavigazione dell’Africa, i prodotti esportati rischiano di finire fuori mercato e quelli importati subiscono rincari, tutto a causa del maggior costo del trasporto. Ne consegue che, dopo due anni passati a tirare la cinghia pur di contenere l’incidenza di un’inflazione arrembante, ci ritroviamo da capo a dodici a fare i conti con la Banca centrale europea, la cui unica ricetta per contrastare il fenomeno inflattivo è quella di congelare la circolazione del denaro, alzando all’inverosimile i tassi d’interesse. Ma non finisce qui.

La crisi di Suez porta con sé la crisi degli scali marittimi italiani. A Trieste – primo porto italiano per volume di merci in transito – sono state programmate due settimane di stop, a causa dal drastico calo di arrivi e partenze da e verso l’Estremo Oriente. Ma è solo l’inizio. La preoccupazione del settore della portualità è che la crisi di Suez da straordinaria diventi strutturale per la decisione delle Compagnie di navigazione di abbandonare un Mar Rosso insicuro. Cosa facciamo? Dopo una storia lunga millenni di traffici marittimi sviluppatisi nel Mediterraneo e da questo in tutto il mondo, chiudiamo bottega? Si va tutti a Rotterdam, per la gioia degli olandesi, a imbarcare le nostre merci?

Per comprendere l’ampiezza del fenomeno è sufficiente consultare il Rapporto annuale 2023 “Italian Maritime Economy del centro studi Srm, collegato al Gruppo Intesa San Paolo e sostenuto dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, secondo cui da Suez transita il 40 per cento dell’import-export marittimo italiano per un valore di 154 miliardi di euro. Per non parlare di ciò che accadrà alle forniture energetiche. Il prezzo del Brent ha viaggiato fino alla serata di ieri sui 72,06 Usd al barile. E siamo solo all’inizio della crisi. Le previsioni dicono che l’Europa potrebbe dover fronteggiare costi energetici più elevati e ritardi nelle spedizioni. C’è il serio rischio che l’ambizioso “Piano Mattei”, individuato dal Governo Meloni per essere la soluzione definitiva alla copertura della domanda energetica dell’Italia, muoia ancor prima di vedere la luce. Non la vogliamo fare tragica, neanche però ci va di mettere la testa sotto la sabbia. C’è la possibilità che salti tutto se non si interviene efficacemente a bloccare la deriva terrorista.

Al momento, l’Italia non ha aderito all’operazione navale denominata “Prosperity Guardian”, allestita in tutta fretta alla fine dello scorso anno dagli Stati Uniti per proteggere il traffico mercantile nel Mar Rosso dagli attacchi missilistici degli Houthi. Vi partecipa un gruppo di Paesi. La guida dell’operazione è affidata alla Combined Task Force 153, a sua volta gestita da Combined Maritime Forces (Cmf) di stanza a Manama, in Bahrein. L’Italia impegna nel teatro operativo la fregata Fremm “Virginio Fasan” (identificativo F591) – che in queste ore viene sostituita dalla fregata Fremm “Federico Martinengo” (identificativo F596).

Tuttavia, l’impiego della nostra unità navale avviene nell'ambito di un'operazione già esistente e autorizzata dal Parlamento e non dell’operazione Prosperity Guardian. D’altro canto, l’Italia non partecipa alle incursioni disposte da Usa e Gran Bretagna mediante raid aerei condotti contro le basi dei terroristi Houthi. Con qualche balbettio di troppo, la defezione è stata spiegata con l’impossibilità del Governo di ordinare un attacco contro un’altra nazione senza il preventivo assenso del Parlamento. Se è il voto parlamentare che occorre, cosa si aspetta a richiederlo? La politica italiana tutta deve comprendere che non è più tempo di imbarazzanti pudicizie e di falsi moralismi. La soluzione al problema scatenato dei terroristi yemeniti è la risposta armata. La più violenta e radicale possibile. E a nessuno venga in mente di piagnucolare per la sorte dei civili yemeniti bombardati, perché di loro che appoggiano e sostengono i terroristi non possono farsene carico le nostre coscienze. Ministro Guido Crosetto, dov’è l’arma aerea? Abbiamo speso un botto per comprare i fantascientifici F-35, perché non dispiegarli a difesa degli interessi nazionali così gravemente minacciati? È il momento di tirarli fuori dagli hangar e di utilizzarli in ciò per cui sono stati concepiti.

Preveniamo le obiezioni ostruzionistiche dei “pacifisti” con una semplice domanda: vi è chiaro o no che se chiude Suez siamo finiti?

Aggiornato il 18 gennaio 2024 alle ore 11:10