L’affluenza alle urne, nelle ultime elezioni politiche per la Camera dei deputati, è stata del 63,8 per cento. Vuol dire che il 36,2 per cento dei cittadini aventi diritto non si è manco sforzato di recarsi ai seggi. Eppure, nell’attuale dibattito politico, la cosa non è quasi mai presa in considerazione. L’unica eccezione è costituita dal Partito liberale italiano, ultracentenario, costituitosi in quel 1922 della fascista “marcia su Roma”, per tentare di organizzare le forze liberali autrici del Risorgimento, portandolo fino alla Vittoria del 1918, nel momento in cui venivano travolte dall’avvento delle “masse”. Oggi il partito, ritornato alle posizioni di centrodestra che le sono proprie nella storia del nostro Paese, ridotto da quelle masse a situazioni extraparlamentari, è l’unico che intende preoccuparsi dello sgretolamento delle “masse” rilevato dai dati sull’affluenza elettorale.
La democrazia di massa si sta risolvendo in un’oligarchia dei pochi, associati in partiti di esigui militanti. Si è riproposto di recuperare la “Terza l’Italia”, termine coniato dal sociologo Arnaldo Bagnasco, accademico dei Lincei, in un saggio del 1977, per indicare quel ceto di imprenditori e liberi professionisti, attori e autori in quel tessuto di piccole e medie imprese diverso da quello contadino e della grande industria, allora in ascesa nel Triveneto, in Emilia-Romagna, in Umbria, in Toscana e nelle Marche. Adesso Antonino Sala lo astrae dalle localizzazioni territoriali e lo radica nelle condizioni economico-sociali del singolo, al suo livello d’istruzione, di cultura, di consapevolezza dei fenomeni materiali e spirituali. Parliamo di un ceto medio vessato da tasse e burocrazia, composto da liberi professionisti, docenti, piccoli proprietari, imprenditori agricoli, piccoli e medi industriali. Ma anche da studenti e persino da funzionari statali i quali, oppressi dal fisco e dalle pastoie amministrative, stentano a mantenere un tenore di vita accettabile.
In passato costoro, quando riuscivano a sottrarsi alla truffa democristiana, che faceva leva sulla paura del comunismo, salvo poi cercare il compromesso, si rivolsero all’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, ai monarchici democratici di Alfredo Covelli, e poi al Partito liberale italiano di Panfilo Gentile, Mario Ferrara, Manlio Lupinacci, il quale parlò già nel 1969 di “democrazie mafiose”. Senza dimenticare Giovanni Malagodi, autore tra l’altro del volumetto Massa non massa e Agostino Bignardi. Persino Valerio Zanone e Renato Altissimo, se ebbero il vezzo di “spostarsi a sinistra” per sembrare più “aggiornati”, furono irremovibili nell’opporsi a qualunque “compromesso storico” con i comunisti. Poi, con Antonio Martino, Alfredo Biondi e molti altri entrarono nella Forza Italia di Silvio Berlusconi, che ebbe il merito di fermare la “gioiosa macchina da guerra” con cui Achille Occhetto tentò di dare l’assalto al Palazzo.
Oggi lo storico Partito liberale italiano si presenta rinnovato nell’organico, sotto la segreteria generale di Roberto Sorcinelli, avvocato cagliaritano con buona esperienza internazionale, per riproporsi di rappresentare questa Terza Italia che, attualmente, non va più a votare. E ha un problema di scarso ascolto da parte dei mezzi di comunicazione sociale. Forza Italia, che ha stabilito con il Pli un accordo, anche se ai “minimi termini”, conserva un’eredità berlusconiana di buone relazioni coi “media”. E avrebbe tutto da guadagnare se, intelligentemente, appoggiasse l’alleato nel settore. Tuttavia, un ancor giovane avvocato con esperienza internazionale potrebbe rendersi conto sul fatto che esista un’altra motivazione forte di questo assenteismo. Tali individui e tali ceti stimano che, in settori fondamentali per la loro esistenza, i Parlamenti e i Governi nazionali stanno contando sempre meno, espropriati nella loro sovranità dal tessuto delle imprese transnazionali. Ad esempio, tutta la discussione sul salario minimo e quello contrattato collettivamente ha scarsissima rilevanza. Se la soluzione adottata portasse a un costo del lavoro non in linea con le convenienze di queste imprese, esse non si farebbero problemi per “delocalizzare”, cioè traferire, la produzione in altri Stati. Ciò non solo provocherebbe licenziamenti dei dipendenti locali, ma il venir meno di tutto l’indotto, anche in termini di prestazioni professionali indipendenti.
L’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, lo ha capito. Tenta sempre, ogni volta che le competenze comunitarie lo consentano, di appoggiarsi al ruolo sussidiario dell’Unione europea. L’Unione, per la sua struttura, conosce un sistema rappresentativo, nel quale i cittadini votano per il Parlamento europeo. Il problema sono le organizzazioni internazionali globali, dalle Nazioni unite all’Organizzazione mondiale per il commercio. Lì, un Partito liberale italiano, con un segretario generale avvocato con esperienze internazionali, potrebbe rappresentare una fucina di idee. E quella Terza Italia che ora “vota con le scarpe”, cioè si reca altrove e non alle urne, potrebbe essere spinta, gradualmente, a sentirsi rappresentata da una forza politica che avverte la questione e si batte per tentare di superarla.
Aggiornato il 11 dicembre 2023 alle ore 18:23