La puzza dell’antimafia

Sassolini di Lehner

I professionisti dell’antimafia per garantirsi il futuro e la carriera debbono amplificare, aggiungere, esagerare, offrendo della mafia immagini suggestive, spettacolari, abnormi, teatrali, quand’anche Cosa nostra sia, in realtà, decaduta e ridotta ai minimi termini. A loro serve che sia viva, vegeta e più potente che mai, perché se venisse fuori che non è più quella tremenda e temibile di trent’anni fa, a causa della caduta drammaturgica, perderebbero prebende, lavoro, credibilità.

L’antimafia raccontata, del resto, è stata un gran business.

Mi riferisco a magistrati ed a giornalisti che seguitano a propinarci fantasie, deliri, sceneggiature orripilanti e ipercromatiche di dinosauri mafiosi, ormai estinti, eppur a colpi di retorica riportati galoppanti e vitali.

Sono riusciti, ad esempio, a propalare la favola di un capetto provinciale, Matteo Messina Denaro, innalzato a “capo dei capi”, drammatizzato nientemeno che come legittimo successore di Totò Riina, mentre il defunto Matteo da decenni malato oncologico era teso a preservare Cosa sua e non Nostra, a salvare il proprio culo dal tumore e dallo Stato, comprando medicine, nonché l’omertà di condomini e compaesani.

Grazie al generale Mario Mori – ma è per tale vocazione alla verità e non alla teatralità che cercarono di infangarlo e spedirlo in galera – sappiamo che lo scomparso Messina Denaro, di contro agli enfatici oratori del circo mediatico-giudiziario, era da tempo una scartina e non il novello don Corleone, boss dei boss.

Leonardo Sciascia comprese subito che i professionisti dell’antimafia puzzavano.

Aggiornato il 29 settembre 2023 alle ore 10:41