Non sappiamo ancora se Javier Milei vincerà le elezioni, ma una cosa è certa: l’Argentina non sarà più quella di prima, perché con Milei e con Victoria Villarruel si sono sdoganati molti temi e concetti che solo fino a pochi mesi fa erano letteralmente tabù: non si poteva elogiare il liberalismo, perché si veniva subito etichettati come imperialisti, capitalisti, servi dei “gringos”, nemici del popolo; non era nominabile il conservatorismo, che i maggiori partiti disprezzavano come tradizionalismo di ultradestra e come militarismo golpista; era malvisto parlare di iniziativa privata – industriale o artigianale –, considerata dal mainstream peronista-populista come espressione di egoismo individualista e sfruttamento dei lavoratori; e non si potevano ricordare le vittime del terrorismo di sinistra negli anni Settanta, perché – questa la vulgata – a sinistra ci sarebbero stati solo movimenti angelici, perseguitati dalla violenza della destra e quindi costretti ad agire con le armi per difendersi. Oggi si è iniziato a parlare di tutto ciò, a squarciare il velo della demagogia e della menzogna, e non si tornerà più indietro, a prescindere dall’esito elettorale.
Grazie a Milei e a Villarruel, l’Argentina sarà migliore sul piano della coscienza politica dei cittadini, della possibilità di parlare e di applicare i princìpi del liberalismo e i valori del conservatorismo, e quindi sarà certamente più libera, e con Milei presidente sarà anche infinitamente più stabile dal punto di vista economico e sociale. Ma la situazione attuale del paese è, senza dubbio, drammatica. Sta imperversando una crisi economico-finanziaria forse ancor più grave di quella che nel 2001 portò il paese a una bancarotta devastante, tanto che oggi molti analisti parlano di default annunciato se non addirittura imminente. Ci si augura – in primo luogo per il bene degli argentini, ma anche per i già difficili equilibri del sistema economico-finanziario occidentale e quindi per la sicurezza del complicato sistema geopolitico occidentale – che non sia questo lo sbocco della crisi in atto, ma è vero che dopo oltre vent’anni di governo peronista, interrotto solo da quello di centrosinistra di Macri dal 2015 al 2019, l’Argentina è allo stremo delle forze economiche e psicologiche, squassata da un tasso d'inflazione che supera il 120 per cento su base annua; disorientata da scelte governative al limite della follia (come ad esempio il sostanziale divieto per i cittadini di acquistare prodotti dall’estero, le pesanti restrizioni valutarie o l’aumento quasi esponenziale dei sussidi pubblici a spese degli ormai sempre più pochi e più poveri contribuenti privati); ricattata da sindacati che assomigliano a comitati d’affari, tanto potenti da imporre qualsiasi sopruso, perfino l’esproprio di una fabbrica o di un’impresa; impaurita da una criminalità che – complice una legislazione iperpermissiva e un ideologicamente organizzato indebolimento delle forze di polizia – dilaga ovunque facendo della sicurezza una questione tragica come lo è quella economica.
La tripla presidenza consecutiva di Néstor Kirchner e di sua moglie Cristina, dal 2003 al 2015, e il quadriennio peronista che sta per concludersi a fine 2023 – nel quale si inserisce la scriteriata e devastante gestione della pandemia (paralisi interminabili e inutili che costrinsero migliaia di aziende sane a chiudere le serrande) – hanno definitivamente guastato la macchina produttiva e l’apparato sociale di un paese che era già profondamente segnato dal malaffare politico e da una corruzione dilagante (è al 78° posto nella graduatoria mondiale che inizia dalla nazione meno corrotta). Strano declino di una nazione che nel 1895 aveva il PIL più alto del mondo, che possiede ingenti risorse naturali, vasti territori, un livello culturale elevato e una popolazione dotata di grande spirito d'iniziativa.
La spiegazione di questa sconfortante decadenza risiede in principale misura nella distorsione con cui la sua classe politica ha concepito lo stato ovvero il bene pubblico: l’interesse nazionale subordinato a quello personale; le ricchezze statali usate come bancomat per riempirsi le tasche; la politica come mezzo per fare bottino più ancora che come strumento per imporre un’ideologia; insomma, l’etica sostituita con la cotica, direbbe Enrico Montesano. Patologie diffuse, certamente, che in Argentina hanno avuto effetti particolarmente dirompenti, perché tutte insieme hanno concorso a farne un paese in cui, come ha scritto Mariano Grondona, raffinato politologo e uno dei più brillanti intellettuali argentini, “la burocrazia ha tentato di sostituire la borghesia mediante lo statalismo o di subordinarla mediante l'assistenzialismo”. Tentativo scellerato e, sfortunatamente, riuscito. Così nacque la paralisi progressiva che oggi attanaglia la nazione più “europea” dell’America Latina.
Per indicare questo perverso meccanismo del sistema burocratico-politico, Emilio Perina, profondo conoscitore dei labirinti del potere, aveva coniato nel 1981 un’espressione icastica: la máquina de impedir, quella macchina che si attiva per impedire che si attivi chi vuole fare impresa. Un colossale marchingegno che controlla e soffoca non solo l’imprenditoria ma anche qualsiasi altro esercizio socioeconomico: questo è diventato via via lo stato argentino. Le somiglianze con realtà nazionali come l’Italia o alcuni altri paesi europei sono molte e notevoli, ma bisogna riconoscere che l’ingranaggio politico-burocratico-assistenzialista argentino è difficilmente eguagliabile nei suoi effetti paralizzanti.
Ed è in questa realtà iperinflazionata, economicamente depressa, culturalmente narcotizzata e socialmente esplosiva – vittima del peronismo, del sindacalismo, del progressismo, del marxismo e del politicamente corretto –, che il candidato liberale, libertario e liberista Milei sta conducendo, insieme alla conservatrice Vicky Villarruel, una campagna elettorale che potrebbe essere decisiva per la rinascita o per l’affossamento definitivo della loro nazione.
Quella del 22 ottobre non sarà un’elezione presidenziale come le altre, combattute e difficili ma sempre nel quadro di diversità non enormi fra i principali sfidanti. Oggi le differenze tra Milei e gli altri candidati sono abissali, non solo differenti visioni, ma proprio differenti mondi. Perciò Milei rappresenta la possibilità di un cambiamento radicale, di un’inversione totale di rotta, un’occasione quasi unica per un Paese che altrimenti rischia di trasformarsi in un Venezuela australe, economicamente e politicamente. Non sto drammatizzando: questo è davvero il rischio che sta correndo oggi un paese potenzialmente in grado di stare alla pari con molte nazioni avanzate, ma di fatto tanto arretrato – nel senso sopra descritto – da suscitare tristezza e indignazione.
Ora la vittoria di Milei non è più così impensabile come soltanto qualche mese fa, anzi, è altamente probabile, tanto che il sistema, che Milei definisce “la casta”, si sta giocando tutte le carte, anche quelle truccate, per tentare di scongiurarla. Ma intanto, primo passo, contro tutti i più ravvicinati sondaggi, il 13 agosto Milei ha vinto le primarie presidenziali (un voto per designare il candidato di ciascun partito o coalizione; una sorta di prova generale delle elezioni vere e proprie di fine ottobre) con un galvanizzante 30 per cento, e poi una sequenza di manifestazioni per entusiasmare gli elettori già acquisiti e per sensibilizzare quelli non ancora convinti, con sondaggi che mostrano un distacco di almeno dieci punti rispetto agli altri due candidati.
In Italia, una gran parte della stampa e degli osservatori lo ha classificato come populista, come neofascista o come un peronista di nuova generazione. Definizioni errate, false, strumentali. Milei segue la lezione di Friedman, di Hayek e Mises, e immagina quindi per il suo paese una rinascita complessiva sullo stile del monetarismo friedmaniano, del liberalismo hayekiano e del liberalconservatorismo di Mises. Destra liberale, altro che populismo o fascismo. Propulsione imprenditoriale, altro che peronismo. Libero mercato in libero stato, e nel contempo massima libertà d’iniziativa e minimo intervento statale.
Liberare l’iniziativa privata significa infatti sciogliere l’intero paese dai legacci con cui un potere totalmente autorerefenziale, in pieno delirio di controllo sociale che diventa controllo surreale (un esempio fra tanti: oggi per chiedere un preventivo dei costi in un negozio di qualsiasi genere bisogna addirittura esibire il documento d’identità) e veicolo di corruzione sfrenata, sta assurdamente esasperando la vita quotidiana e soggiogando la popolazione, che per necessità si sta assuefacendo a qualsiasi genere di vessazioni, ma che al tempo stesso, per converso, sta iniziando a parlare di libertà, non solo quella formale e ideale della Costituzione, ma quella effettiva, concreta; la libertà occultata dal potere peronista saccheggiatore delle ricchezze e sequestratore delle coscienze, la libertà negata.
Liberare la mente delle persone significa lasciare ad esse le chiavi del proprio destino, con tutta la responsabilità che ciò implica; liberare l’iniziativa privata significa incentivarla, e quindi liberare la società stessa restituendo ai cittadini quella dignità e quell’autonomia che le sono state tolte da decenni di abusi politici e burocratici. Ma il libertarianismo integrale di Milei non è soltanto difesa a oltranza della libertà individuale, bensì anche una forma praticabile di congiungere l’individuo con la sua nazione, che non è intesa né come uno stato mercantile chiuso né come terra aperta in cui chiunque possa spadroneggiare, ma come luogo in cui un popolo può sviluppare la propria identità nella relazione con quelle di altre nazioni amiche o anche soltanto interlocutrici. Questo sembra essere il piano di rinascita che Milei e Villarruel hanno in mente per l’Argentina. Il sistema peronista, burocratico e sindacale lo ostacolerà in tutti i modi, anche illeciti, scatenando le organizzazioni e i movimenti specializzati nelle sommosse e negli scontri di piazza, incendiando la vita sociale e avvelenando l’opinione pubblica, e proprio perciò sarà decisivo per Milei contare, fin d’ora, non solo sull’appoggio attivo dei suoi elettori, ma anche sul sostegno leale delle forze di polizia e di sicurezza.
Milei deve uscire vincente dalla sfida elettorale di ottobre e realizzare il suo programma di governo, non tanto per sé, perché l’anagrafe è dalla sua parte e potrebbe sempre ripresentarsi fra quattro anni, quanto per il suo paese, il quale non può più aspettare un cambio di marcia che non è mai avvenuto e che non è mai stato così vicino e possibile.
Aggiornato il 28 settembre 2023 alle ore 09:17