In politica, la merce più diffusa è la promessa. Talvolta fraudolentemente, ma spesso in buona fede, i leaders politici fanno largo uso delle promesse, sia per attrarre consensi, sia per esporre i propri progetti, che appunto in quanto a venire devono per forza essere presentati come intenzioni e quindi come promesse. Poi, a causa della realtà delle situazioni o per malafede previa, molte di queste promesse non si concretizzano, e quindi a rigore di logica e di linguaggio non vengono mantenute. Oggi la commistione fra esigenze elettorali e sirene mediatiche ha prodotto un cortocircuito tale, da indurre gli esponenti politici a fornire sempre meno soluzioni e sempre più promesse.
Ovvio, molte sono le eccezioni a questa prassi poco commendevole, ma tassonomicamente è quest’ultima a prevalere. Si dà così la stura a un profluvio di promesse, diventate una sorta di intercalare vuoto e vano, e metabolizzate dagli elettori come un rumore di fondo ormai abituale, tanto da non accorgersene più. Doppio effetto: si promette sapendo che non si potrà mantenere la parola data; si ascoltano le promesse sapendo che non verranno realizzate. Dall’illusione alla disillusione, e ritorno. Così si alimenta la bolla di finzione in cui con troppa frequenza si muove il rapporto fra politici ed elettori.
Se dunque la vendita delle illusioni (ma non solo in ambito politico) produce uno stato di allucinazione collettiva in cui non si riesce più a distinguere tra realtà e fantasia, valore e contraffazione, verità e menzogna; e se, di conseguenza, l’atto del promettere ha perduto ogni solennità, privo del carattere vincolante che ne caratterizza l’essenza e ripetuto come uno slogan pubblicitario, allora balzano agli occhi, per forte contrasto, i casi di parola data e rispettata. Ne analizzo qui uno recente, che mi interessa non solo dal punto di vista politico ma anche da quello filosofico.
Esattamente un anno fa, nel corso della campagna elettorale, Giorgia Meloni aveva annunciato che in caso di vittoria avrebbe istituito una commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia. A molti sembrava una sparata elettoralistica, alcuni la deridevano, altri la elogiavano, altri ancora (i talebani dei protocolli sanitario-politici) la temevano e la osteggiavano; e invece è stato un brillante, circoscritto ma significativo, esempio di promessa mantenuta. La qualità di un governo si vede, certamente, dalle sue scelte strategiche in ambito economico e geopolitico, ma è constatabile anche in interventi settoriali o in azioni più limitate, che talvolta consistono in decisioni di principio, come nel caso delle positive e da lungo tempo attese novità nel gestire la situazione del covid. E qui si è misurata anche l’autenticità e l’intensità della difesa della libertà personale che Giorgia Meloni ha sempre esibito e attestato.
Oggi l’aria è cambiata rispetto all’oppressione con la quale la maggioranza politica, mediatica e scientifica ha gestito, fino all’estate 2022, l’epidemia di Sars-CoV-2, ma non è tanto l’indebolimento del virus, quanto la mutazione dell’impostazione politica, ad aver liberato le strutture della società e la mente delle persone, che ora possono pensare e guardare al covid senza la cappa opprimente composta da terrorismo scientifico e imposizione politica, vaccinazione obbligatoria e lasciapassare sanitario. Il passo avanti compiuto dal governo Meloni è enorme, pur nella consapevolezza che alcuni aspetti – che però non dipendono direttamente dall’esecutivo bensì da un insieme di attori e fattori sociali – vanno ancora normalizzati, come per esempio la piena libertà di decisione ed espressione nei confronti di vaccini anticovid e terapie alternative. Ancora oggi infatti, e tanto più in vista della stagione invernale, i portavoce della vaccinazione a tappeto e dei famigerati protocolli para-sanitari terrorizzano la popolazione con dati e previsioni accuratamente strumentalizzati. Ancor oggi mettere in discussione l’efficacia dei vaccini (e quindi l’efficacia della campagna inoculatoria) viene bollato dai megafoni degli epidemiologi, dai loro media di riferimento e dai politici di sostegno come negazionismo; così come stregonerie vengono da costoro definiti i mezzi alternativi sperimentati e comprovati nella loro efficacia, come per esempio l’ivermectina, che i virologi nostrani ostracizzano come se fosse veleno e che, invece, l’FDA – la massima istituzione sanitaria statunitense – consente oggi ai medici di prescrivere.
Il tentativo – orchestrato dall’OMS e coadiuvato da big pharma e governi nazionali malleabili se non addirittura asserviti – di imporre misure palesemente illiberali e in gran parte inefficaci corrisponde a ciò che, recentemente, Robert Malone ha interpretato come una volontà totalitaria da parte di una scienza (e delle sue appendici politiche) che si è trasformata in business e che dunque non è più un campo del sapere umano bensì un protagonista del potere. Per aver sostenuto che la proteina spike contenuta nei vaccini a terapia genica è una tossina, Malone – che già negli anni ’90 aveva scoperto e documentato la forte tossicità associata all’uso di lipidi cationici per trasportare mRNA e DNA – è stato bersagliato non solo dalle aziende produttrici dei vaccini ma anche da molti massmedia, per non dire dell’emarginazione che ha subìto nel mondo scientifico.
Il caso del virus prodotto in Cina e da essa diffuso è stato uno dei migliori banchi di prova per saggiare le capacità di questa volontà di potere. In effetti, la scienza, nella forma della tecnoscienza, vuole imporsi come la divinità del XXI secolo, dinanzi alla quale i popoli dovrebbero prostrarsi erigendo totem e prestando obbedienza. Nell’ambito della gestione di Sars-CoV-2, le possibilità di sfuggire a questa morsa ferrea passano tutte da un unico punto, articolato in due rami: informare le persone sull’efficacia delle terapie alternative alla vaccinazione, e poi, da un lato, difendere la libertà individuale di scelta terapeutica, e dall’altro lato spingere i governi nazionali a sottrarsi al ricatto di una scienza sedicente tale, arrogante e bulimica di potere. Qui, libertà di scelta significa: uno può decidere di vaccinarsi o di non vaccinarsi; può decidere quale terapia e quali farmaci adottare in base alle sue esigenze, patologie e inclinazioni soggettive, e deve avere il diritto di trovare e acquistare qualsiasi farmaco approvato.
In questa chiave, proprio dall’Italia sta finalmente giungendo una voce che per un verso è dissonante rispetto all’asservimento con cui ancor oggi molti altri Stati assecondano le brutali pretese delle cosche scientifiche, e dall’altro lato è promettente per quanto riguarda il trattamento sanitario e la gestione politica del coronavirus. La chiave di volta del cambiamento in atto è rappresentata dall’orientamento della premier Giorgia Meloni, la cui visione liberale anche in materia sanitaria e la cui sensibilità verso l’intera gamma delle terapie anticovid, incluse quelle alternative, sono note e hanno impedito, ad esempio, che Ministro della Salute fosse un vaccinista dogmatico. E dalla premier è venuto l’impulso a una rapida approvazione della Commissione parlamentare d’inchiesta, che si occuperà dei fatti e misfatti governativi nella gestione della pandemia e quindi fino all'estate del 2022. La Commissione esaminerà temi specifici riguardanti ad esempio le decisioni ministeriali relative al lockdown, gli acquisti e l’utilizzo dei dispositivi di protezione e cura, le restrizioni alla circolazione delle persone, le ricadute negative sulla salute – fisica e psicologica – e sull’economia in generale che le scelte governative di quegli anni hanno causato. Ma la Commissione ha anche la prerogativa di affrontare questioni di principio e di fondo, e quindi politiche in senso lato ed etiche in senso stretto.
Le premesse politiche implicite sulle quali la Commissione è stata istituita consentiranno infatti l’esplorazione di campi precedentemente preclusi, di temi che il diktat burocratico-sanitario aveva vietato anche solo di menzionare, e di teorie che non potevano essere espresse, pena appunto il marchio di negazionismo. In realtà, negazionisti sono stati i vaccinisti fanatici, perché hanno negato e precluso sia la libertà personale sia le opzioni terapeutiche differenti dal loro rigido (e burocratico) schema protocollare. Certo, la ricerca scientifica non va demonizzata, anzi, occorre valorizzarla quando è appunto ricerca autentica e non strumentale, ma non bisogna nemmeno farsi schiavizzare dalla tecnoscienza. È ora dunque di smascherare la retorica ideologico-sanitaria e affermare la verità della scienza, che non consiste nelle arroganti imposizioni dello scientismo ma nell’umiltà della ricerca e nell’apertura al confronto con qualsiasi opzione alternativa. La scienza non è una fede, e quando la si trasforma in dogma, come molti parascientifici epidemiologi hanno fatto durante la pandemia (l’elenco è lungo e i nomi sono tutti ben noti), la si degrada a scientismo, che è la patologia positivistico-totalitaria della scienza autentica.
E quindi, per fare solo un esempio utile ai lavori della Commissione, i danni provocati dai vaccini non devono cadere in prescrizione. Sì, i margini giuridici della Commissione sono ristretti, perché ben delimitati sono i profili legali che essa si è data, ma i margini etici sono assai vasti, perché implicano aspetti che sfuggono al formalismo della legge e alla rigidezza delle norme, e i margini politici sono elastici, perché possono includere prese di posizione e decisioni che si determinano in base agli sviluppi delle indagini stesse. Insomma, siamo in presenza di uno strumento ad alto potenziale veritativo e ad altrettanto elevata possibilità decisionale, nelle cui prerogative ci sono molti più elementi di quelli enunciati nella declaratoria.
L’auspicio è dunque che il lavoro della Commissione sia di ampio respiro e, poiché alcuni punti formulati negli obiettivi lo consentono, affronti temi e problemi nevralgici che in precedenza erano intoccabili, vaccini inclusi. E poiché su questo piano i margini di movimento sono estesi, si coinvolgano anche quegli specialisti emarginati e insultati dall’apparato gestionale ufficiale, come per esempio Robert Malone, uno dei massimi scienziati dei vaccini e soprattutto di quelli a mRNA, e Fabrizio Salvucci, che ha il merito di aver rovesciato l’interpretazione della patologia Covid, spiegando che era tromboembolia e non sindrome respiratoria (con la cui ottusa diagnosi sono morte migliaia di persone intubate: e chi ne risarcirà la dignità e la memoria?).
E ancora, la Commissione colga l’occasione per farsi promotrice di un grande dibattito nazionale e internazionale sulla scienza medica, sulle sue peculiarità e sul suo stato attuale, sulla gestione delle emergenze sanitarie, e più in generale sui limiti della scienza, intesi come limiti interni e come limitazioni che la politica avrebbe il diritto (e il dovere) di porle, sui rapporti fra scienza ed etica, sul senso della libertà personale in relazione alla onnipervasiva tecnificazione, rilanciando una filosofia della libertà della quale c'è oggi bisogno più che in qualsiasi altra epoca storica e che il governo italiano sta applicando, pur tra mille difficoltà, a molti settori della vita nazionale.
Così, la promessa mantenuta da Giorgia Meloni – tanto più apprezzabile in quest'epoca di vaniloquio – potrà da un lato essere da esempio per altri paesi con governi orientati sui princìpi della libertà, e dall'altro costituire il presupposto per un risultato di portata internazionale, che vedrebbe l’Italia fungere da anticipatrice di un nuovo corso nella gestione delle emergenze pandemiche e sanitarie generali, un nuovo orientamento che, salvaguardando la libertà individuale di scelta sanitaria nel quadro di una società appunto liberaldemocratica e difendendo l’identità nazionale come pietra angolare della comunità mondiale, rivendichi un sovranismo sanitario, cioè una quanto più possibile ampia autonomia decisionale nazionale e individuale, e che quindi si liberi dalle imposizioni dell’OMS pur tenendo con quest’ultima un rapporto istituzionale inappuntabile.
Aggiornato il 22 settembre 2023 alle ore 10:47