Come se stesse subendo un lento smottamento geopolitico, l’Argentina sta scivolando da Occidente verso Oriente, verso cioè quel gruppo antagonista riunito nei cosiddetti BRICS e ideologicamente trainato da Cina e Russia. Gli effetti di questo bradisismo potrebbero essere pesanti per il sistema occidentale e soprattutto per gli Stati Uniti, ma senza dubbio lo saranno per il popolo argentino, che si troverà proiettato in un mondo – politico, economico, sociale e culturale – distante dalle sue coordinate di origine e di elezione: gli argentini, oltre a essere giustamente fieri della loro identità nazionale specifica, hanno infatti sempre guardato con affinità e perfino con affetto culturale all’Europa, con tutto ciò che questa tradizione implica. Nello scenario che stiamo osservando o per il momento soltanto ipotizzando, essi si troveranno sradicati non solo dalle loro origini antiche ma pure dai loro orizzonti identitari attuali. Un raggruppamento così eterogeneo e così strumentale, proteso a ostacolare l’Occidente e a indebolirne il sistema economico-sociale, non può infatti fornire quella necessaria forza immateriale costituita da uno spirito unitario o almeno amalgamante. Il gruppo-BRICS potrà forse portare vantaggi economici, ma non potrà certo sintetizzare tradizioni tanto differenti.
Esempi eccellenti di raggruppamenti plurinazionali sono l’Unione Europea e il Commonwealth, i quali si legittimano poggiando su basi comuni solide e coesive: l’UE si fonda su una comunità storico-culturale variegata ma dai tratti essenziali unitari e da un destino comune; il Commonwealth si regge su strutture meno omogenee ma sufficientemente forti, storicamente date e ancora sostanzialmente condivise dai vari paesi che lo compongono. Un gruppo come i BRICS invece non sta in piedi per natura, né tanto meno per cultura, bensì solo per la forza di attrazione esercitata da Cina e Russia, e per l’antioccidentalismo che caratterizza gli attuali governi dei suoi Stati membri.
Entrambi questi ultimi fattori sono però sufficientemente potenti da fungere da collante per opportunità contingenti e, purtroppo, per intenzioni strategiche. E con raggelante lungimiranza, la Cina sta correndo veloce. Da qualche giorno, in Argentina, dove ai residenti è sostanzialmente vietato sia esportare sia importare valuta estera, figuriamoci possedere conti correnti in valuta, e dove il cambio del dollaro è ormai una sorta di quotidiana corsa a ostacoli, la Banca centrale cinese ha aperto una sede – legata a una società cinese per l’estrazione del litio (guarda caso, un metallo raro fondamentale per la produzione di batterie) – dove, per concessione del governo argentino, i cittadini potranno aprire un conto in yuan. Questo è il quadro: la moneta locale, il peso, viaggia verso minimi che definire storici è un eufemismo; il governo tiene artificialmente in vigore un cambio ufficiale del dollaro che è circa la metà di quello reale (e quindi di quello praticato nel mercato valutario nero), e d’improvviso apre un canale valutario preferenziale con la Cina, con il possibile risultato che molti argentini si rivolgano, per disperazione, allo yuan.
Se nei BRICS circola l’intenzione di lanciare una moneta (forse quella cinese) alternativa al dollaro, l’Argentina, trascinata sempre più in basso da un governo fatalmente peronista e ideologicamente sinistrista, sta facendo da cavia per un microesperimento monetario con il quale Pechino ritiene di poter realizzare una mossa win win: con l’operazione yuan, piccola ma simbolica e già per sé redditizia, anche perché connessa con il reperimento del litio, si consolida la presenza cinese in un’area strategica dell’emisfero sud. Il panopticon postmaoista ha infatti individuato nella parte meridionale dell’Argentina una zona di grande interesse sia per il controllo dei propri satelliti sia per collocarvi una base militare, e con un accordo capestro (contratto con il consenso di governanti assolutamente privi del senso della sovranità nazionale) sta tentando di realizzare entrambi gli obiettivi, che come sappiamo sono reciprocamente legati, iniziando dal primo.
Se in Europa la Cina aveva progettato la cosiddetta “Via della Seta”, che alcuni paesi sembrano voler mantenere in piedi, ma che per quanto riguarda l’Italia la premier Giorgia Meloni sta saggiamente e opportunamente smantellando, pur mantenendo con Pechino rapporti commerciali ed economici di alto livello, come è giusto per difendere l’interesse nazionale; in Africa ha già costruito da tempo piste scorrevolissime per una penetrazione poco appariscente ma molto vasta e redditizia da tutti i punti di vista, una vera colonizzazione sottotraccia; mentre in America Latina sta preparando il terreno per insediamenti che in prospettiva sono, nell’ottica cinese, ancor più interessanti sotto il profilo strategico e, nell'ottica occidentale, ancor più inquietanti.
In Argentina, per esempio, la Cina opera infatti su due livelli, quello economico e quello strategico (militare), entrambi favoriti dalla connivenza politica dei più recenti governi (Kirchner, Macri, Fernández). Il primo livello è già ampiamente operativo e, in quanto appunto economico, ricade nei normali parametri di scambio fra paesi; il secondo è sul piano delle intenzioni e in ogni caso ancora a livello embrionale, ma desta o almeno dovrebbe destare l’attenzione di analisti e governi occidentali. Sta profilandosi infatti una minacciosa Via della Pampa, con la quale si arriva a un paese cruciale per quell’avvicinamento territoriale agli Stati Uniti che è da tempo nelle intenzioni ormai non più recondite di Pechino. L’Argentina è infatti sufficientemente distante dagli USA da non suscitare preoccupazioni immediate a Washington, e però abbastanza vicina se vi si piazza una base militare che dovrebbe far rizzare le orecchie al Pentagono e a Langley.
Un’area per la ricerca spaziale, vasta 200 ettari, ceduta per cinquant’anni (ovviamente rinnovabili) in uso esclusivo e top secret, ufficialmente equiparata a una qualsiasi parte del territorio cinese, collocata in una zona semidisabitata della Patagonia settentrionale (nella Provincia di Neuquén), assolutamente off limits per chiunque e quindi considerabile come una piccola enclave cinese extraterritoriale, è un centro di ricerca oppure l’embrione di un sito militare? Una pietra miliare per il controllo del sistema satellitare cinese oppure una pietra militare dell’Esercito popolare di liberazione ovvero del Partito Comunista Cinese nel cono sud del continente americano? Cosa ne pensa Washington? E cosa ne pensa Javier Milei?
Anche a queste domande egli dovrà infatti dare risposta, se diventerà presidente. Le sue linee guida in politica estera sono per ora perfettamente in sintonia con gli orientamenti dei paesi occidentali e in particolare dei governi di centrodestra. In tema di geopolitica, Milei ha infatti già mostrato le sue carte, e ha indicato alcuni pilastri precisi e coraggiosi: piena adesione e attiva appartenenza al sistema occidentale, a partire dai rapporti strettissimi con gli Stati Uniti – strette relazioni economiche e politiche, vicinanza di intenti e di obiettivi –, per arrivare a un legame altrettanto stretto con Israele, di carattere non tanto economico quanto simbolico, nel quale spicca la volontà di trasferire a Gerusalemme l’Ambasciata argentina. Riconoscere Gerusalemme capitale è un atto che vale più di qualsiasi dichiarazione di amicizia: significa schierarsi con una intera dimensione geopolitica e culturale, etica e valoriale, per la quale Israele è la culla della religione ebraico-cristiana (gli ebrei sono, secondo la lapidaria definizione di Giovanni Paolo II, “i nostri fratelli maggiori”), e quindi difendere Israele è difendere l’Occidente.
Sul piano politico interno, la doppia mossa statunitense-israeliana implica, da un lato, relazionare l’identità storica nazionale argentina – che Milei e ancor più Victoria Villarruel vogliono fermamente conservare – con quell'ambito nordamericano che la sinistra ha sempre visto come imperialista e ottusamente respinto come yankee; e dall'altro lato chiudere politicamente ogni rapporto con eventuali elementi anti-israeliani e antisemiti che pure aleggiano, sia pure assai marginalmente, nel vasto movimento che appoggia Milei, come del resto sono, purtroppo, presenti, anche qui piuttosto esiguamente, in vari movimenti conservatori o di destra occidentali.
Tornando al rapporto con i BRICS, nel recente loro vertice a Johannesburg, l’Argentina è stata ufficialmente invitata, insieme all’Iran e alcuni altri paesi non proprio amici dell’Occidente, ad aderirvi da gennaio 2024. Il governo attuale ha accolto l’invito, ma a dicembre entrerà in carica il nuovo presidente della nazione, e se sarà Milei, sicuramente quell’offerta verrà declinata (sarà interessante vedere cosa farà al riguardo, se venisse eletta, la centrista Patricia Bullrich, mentre è scontato che verrebbe invece accettata dal candidato peronista Sergio Massa). Occidente e BRICS sono antitetici, e l’Argentina non potrà tenere i piedi in entrambe le staffe.
Tanto più se pensiamo che di quel gruppo fa parte la Russia, che con l’Occidente è oggi in guerra non commerciale né fredda, ma calda, anzi bollente. È evidente l’impossibilità di stare con entrambi o anche solo di esserne equidistanti, se si vuole essere parte organica del mondo occidentale. E perciò è abbastanza inquietante vedere ambigui personaggi, legati a Mosca da interessi oscuri, come l’influente giornalista Tucker Carlson – che da tempo sta brigando affinché gli Stati Uniti si ritirino dal conflitto in Ucraina favorendo così i ben noti piani della neosovietica Russia verso le nazioni dell’Europa orientale – planare oggi su Milei per sostenerne la candidatura e, quasi subliminalmente, per convincerlo ad atteggiamenti morbidi verso il Cremlino. Per Milei un pericolo tanto grave quanto il rischio cinese. Il patto che Milei vuole stringere con l’Occidente rappresenta il risvolto geopolitico del cambiamento radicale di rotta economico-sociale che vuole imprimere al suo paese, ed entrambe le questioni devono essere condotte insieme, coerentemente e armonicamente, pena il fallimento dell’una e dell’altra: simul stabunt simul cadent.
E tuttavia, è ovvio che con alcuni paesi, sia di BRICS sia di altre aree extraoccidentali, occorre avere rapporti economici e commerciali, perché al di là degli storicamente consolidati rapporti di buon vicinato con il Brasile, che del gruppo BRICS è uno dei fondatori, anche con altri paesi Milei dovrà necessariamente intrattenere relazioni su ampio spettro e dovrà muoversi da slalomista più che da centometrista come invece sarebbe la sua indole politica: veloce e diretto, per chiudere rapidamente e in modo netto le partite.
In questo ipotetico slalom, se la Russia dovrà essere esclusa per ovvi motivi bellici, la Cina resta l’ostacolo più difficile, per tre ragioni: è la seconda superpotenza mondiale, è già ben dentro al paese, e ha una guida di grande intelligenza, che apprezza l'interlocutore che parli con chiarezza e manifesti apertamente le proprie intenzioni, anche se si tratta di decisioni che lo allontanano da Pechino, che ha per tradizione l’arte della pazienza (la lontananza di oggi, direbbe Confucio, può essere la vicinanza di domani). Perciò Milei, pur optando senza esitazioni per l’Occidente, dovrebbe agire secondo geometrie variabili, modulate appunto su interessi contingenti e su princìpi di fondo. Un esempio: da liberista integrale (si definisce anarco-capitalista), Milei ragiona in termini di libero mercato sia interno sia internazionale, e quindi dovrà trovare un equilibrio fra il liberismo e la lenta ma implacabile penetrazione economica cinese, che al di là di tutto avviene secondo regole di mercato. Come definire questa linea bilanciata? Se liberismo protezionistico è un ossimoro inaccettabile, liberismo sovranista è una formula adottabile, che nel quadro del sistema capitalistico salvaguarda libertà generale e nazione particolare, e che in alcuni Stati del mondo occidentale, tra cui l’Italia, sta trovando applicazioni concrete e positive.
Aggiornato il 18 settembre 2023 alle ore 10:25