La crisi dei Parlamenti comincia all’origine dei Parlamenti. Gli antiparlamentaristi devono farsene una ragione: scoprono l’acqua calda. E non soltanto per la verità contenuta nel celebre aforisma di Winston Churchill sulla democrazia parlamentare. Il fatto è che, mentre esaltano il Parlamento in via di principio, lo esecrano nella quotidianità. E così commentatori di vaglia, illustri costituzionalisti, leader di partito, scienziati della politica sentono la spinta irrefrenabile a criticare il “governo rappresentativo” ed a proporne una qualche riforma più o meno radicale.
Il Parlamento, ora fannullone, ora inutile orpello, ora ostacolo al progresso, ora pura e semplice casta, appartiene ai lamenti e alle invettive da bar eppure no. La “scatola di sardine” l’hanno aperta i rivoluzionari e cos’hanno trovato? Sardine, appunto. Adesso che il Governo Meloni ha messo all’ordine del giorno (!) il regime presidenziale nientemeno e che il sistema parlamentare amputato manifesta le disfunzioni prevedibili e previste, torna d’attualità il rafforzamento del Parlamento. E chi lo vuole monocamerale addirittura, e chi lo vuole più controllore che legislatore, e chi lo vuole più forte per far da contraltare ad un governo reso forte meno dalla vittoria elettorale che dalle opposizioni sfarinate. La riforma della “forma di governo” imporrebbe la riforma della “forma parlamentare”. Troppa carne al fuoco ovvero “vaste programme”, ed anche la solita fuga in avanti della politica proclive alle teorizzazioni anziché alle realizzazioni costituzionali, le quali, quando l’assetto è consolidato, devono essere settoriali, mirate, coerenti per risultare davvero efficaci ed utili, cioè un reale miglioramento istituzionale.
A Governo forte, dunque, Parlamento forte. Ma come, se non si sa quale sarà il rafforzamento dell’esecutivo: alla francese, alla tedesca, all’inglese? E poi, quale rafforzamento del Parlamento? L’accusa più ingiusta e più sbagliata, e forse pure la più antica, che viene mossa al Parlamento da destra a sinistra indifferentemente, consiste nell’incolparlo di frenare la produzione delle leggi e, più in generale, d’intralciare l’indirizzo politico governativo. Poiché l’accusa è infondata, il rimedio proposto è peggiore della colpa: snellire le procedure e velocizzare l’attività parlamentare in modo che le decisioni vengano prese a tamburo battente, senza discussioni inutili e procedimenti dilatori. Pare stupefacente, infatti, invocare rapidità nella legiferazione e nel contempo lamentarsi delle leggi scadenti, invadenti, sovrabbondanti che essa produce.
Nel Regno Unito il Parlamento moderno nacque per sottrarre alla monarchia il potere di imporre tributi senza che i rappresentanti del popolo li decretassero per quantità e scopi. Quindi è esatto affermare che nel controllo, non nella legislazione, risiede l’essenza e la nobiltà del Parlamento. Nondimeno, affinché il controllo finanziario sia quell’efficace difesa dei soldi dei cittadini al cui scopo il popolo elegge i suoi rappresentanti, il Parlamento deve conoscere, dibattere, deliberare a ragion veduta, cioè impiegando il tempo necessario, e soprattutto dovrebbe avere dei limiti fattuali che invece restano sulla carta, in ogni senso. Sembra un paradosso, eppure è così. Screditare un Parlamento che, potendo fare tutto, non fa tutto quello che potrebbe fare, finisce con l’apparire ragionevole. Meno leggi e più conteggi: ecco il rafforzamento del Parlamento di cui l’Italia ha disperato bisogno, mentre la società si dibatte in un viluppo di norme e di debiti, al quale contribuiscono, sebbene non del tutto inconsapevoli, ministri e parlamentari.
Allo stato attuale della questione, il punto cruciale consiste nella “rappresentatività all’italiana”. È impossibile potenziare il Parlamento deprimendone l’essenza rappresentativa. Le leggi elettorali, dal Porcellum in poi, proprio questo hanno perseguito intenzionalmente e realizzato scientificamente: i parlamentari non rappresentano direttamente il popolo ma ne esprimono statisticamente la quota elettorale di ciascun partito. Se i parlamentari non sono scelti (elezione = eligere = scegliere) dagli elettori, ma proposti alla loro fortunosa accettazione dai capipartito, auspicare e perseguire il potenziamento del Parlamento restano pii desideri. La forza del Parlamento non risiede nell’istituzione in sé stessa, ma nel rapporto con il popolo, cioè con i cittadini elettori. Questo rapporto deve nascere e permanere sostanziale, cioè politico. Perciò è sottoposto a verifica in cadenze prestabilite. Se il rapporto, a causa della legislazione elettorale, diventa formale, labile, ìmpari, aspettarsi negli “eletti” la volontà e la forza di esercitare efficacemente il doveroso controllo sul Governo e sulla Pubblica amministrazione equivale a confidare che i pupilli dettino legge ai tutori. “Pupillus omnia, tutore auctore, agere potest”: il pupillo può fare ogni cosa che il tutore gli permetta.
Aggiornato il 07 agosto 2023 alle ore 11:05