Il paradosso di Michael J. Sandel, professore nell’elitaria Harvard, che misconosce il merito e l’eccellenza. Viene in mente il “18 garantito” invocato dai nostri contestatori negli anni ’70
Fatico davvero a capire il largo spazio che il Corriere della Sera (il quotidiano della borghesia?) dedica alla contestazione del “merito” ad opera di Michael J. Sandel, un professore americano imbevuto di “comunitarismo, una corrente di pensiero che critica il liberalismo e il neoliberismo”, come precisa Carlo Bordoni che lo ha intervistato (Sette. Corriere della sera, 13 luglio 2022). Più di recente, il libro di Sandel “La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti” è addirittura uscito in edicola con il giornale e presentato dal curatore Corrado Del Bò in un’intera pagina intitolata “Uso e abuso di un valido principio. Il lato oscuro della meritocrazia” (Corriere della Sera, 14 febbraio 2023, pagina 45). Poiché l’intervista di Bordoni e l’articolo di Del Bò, messi assieme, sembrano meno una recensione che un’adesione alle tesi dell’Autore, le quali in buona sostanza rappresentano una riproposizione (‘rivisitazione’, la chiamano gl’intellettuali) della trita mistica sull’ineguaglianza delle società liberali e dell’economia di mercato; e poiché il più autorevole quotidiano italiano si erge improvvidamente a cassa di risonanza di quelle tesi che restano sbagliate in via di principio se gli esseri umani vogliono governarsi in autonomia anziché assoggettarsi ad altri, occorre ribadire che i concetti di uguaglianza, valore, merito, confusi nelle credenze della gente comune e nelle convinzioni di certi pensatori, sono nondimeno distinti e intercambiarli porta a risultati opposti a quelli perseguiti sebbene utopisticamente.
Esemplare della convinta confusione del professor Sandel è la seguente citazione, che traggo dall’intervista: “Consideriamo un grande atleta, come Lionel Messi. Si è allenato duramente, come molti altri atleti meno dotati. Il suo talento è merito suo o della sua fortuna? E che dire del fatto che vive in un’epoca e in una società in cui tutti amano il calcio? Anche questa è una casualità, non è opera sua. Quindi è difficile dire che, moralmente, egli meriti le enormi ricompense che il mercato gli offre. È difficile sostenere che, moralmente, meriti di guadagnare mille volte più di un insegnante o di un’infermiera. Lo stesso si può dire di altre élite di successo, sia nelle professioni sia nella finanza. Il merito è diventato tossico perché una meritocrazia guidata dal mercato incoraggia chi emerge a considerare il proprio successo come misura del proprio merito. Ho chiamato questo atteggiamento ‘arroganza meritocratica’ delle élite. È il lato oscuro della meritocrazia. Quando consideriamo il nostro successo come ‘opera nostra’ dimentichiamo il debito nei confronti di chi ha reso possibile il nostro successo: la famiglia, gli insegnanti, la comunità, il Paese”.
Questa lunga citazione risulta indispensabile perché è raro trovare in un solo periodo tante stramberie e incongruenze, tali che indurrebbero a disperare degli sviluppi della società americana, e italiana, se fossero accolte e divenissero comuni idee del genere. L’esempio di Lionel Messi ha risvolti umoristici. Il calciatore è fortunato a vivere nel mondo contemporaneo che ama il calcio quanto fortunato era il gladiatore Marcus Attilius nell’antico mondo romano che impazziva per i combattimenti. E sarebbero stati ambedue sfortunati a parti invertite. Ma tutto ciò non ha niente a che vedere con il valore e il merito di entrambi. Pare evidente che il talento di Messi non è “merito” suo ma della genetica in uno con la “fortuna” di essere stato concepito da quei suoi genitori, i quali a loro volta non avevano “meriti” dall’essere stati generati dai nonni di Messi, perciò “fortunato” ad averli avuti. E via a ritroso fino ad Adamo ed Eva. Purtroppo, Sandel non s’avvede della spirale in cui cade. Alla fortuna Messi ha aggiunto del suo, innaffiando il talento con il sudore degli allenamenti.
La “meritocrazia”, qualunque cosa voglia significare nelle intenzioni di Sandel, è per definizione elitaria, non solo perché, se tutti avessero ordinariamente il “merito”, la meritocrazia non avrebbe alcuno dei significati tra quelli evocati dal nome, ma anche perché il “merito” non può essere annotato nell’atto di nascita.
Parlando in generale ma a fil di logica, la morale sta tutta dalla parte del “merito” perché i sistemi morali sono fondati sulla differenziazione del giudizio in base alle condotte dell’agente; in particolare, il “merito” dipende dall’interesse degli altri, dal loro giudizio morale, dal valore intrinseco. Restando al gioco del pallone, il talento calcistico di Diego Armando Maradona era valutato eccezionale ancorché fosse biasimato il comportamento morale del fuoriclasse.
Quanto al successo personale, Sandel ammonisce a non considerarlo interamente “opera nostra” ma a dichiararcene debitori verso l’ambiente di nascita e i fattori esterni. Messo così, l’ammonimento dice tutto ma significa nulla. Per quanto mi riguarda, l’unica verità in proposito mi riesce a malapena di lasciarla intendere con l’aforisma “Il segreto del successo è sempre un mistero” (“Minutatim”, pagina 107). L’uomo di successo lo riconosciamo dopo il successo, a cose fatte. Insegnare ad avere successo, se parliamo seriamente del successo economico in senso lato, è impossibile perché i fattori che davvero vi concorrono sono inconoscibili a priori. Il successo costituisce il loro precipitato in grazia di una misteriosa “virtù” o “spirito” ignoti anche a chi li possiede ed impiega non del tutto inconsapevolmente. Tra l’altro, una delle bellezze del liberalismo classico è che nessuno sa chi vincerà la gara.
In fondo, Sandel presuppone che nella società esistano specifiche persone che, per grazia ricevuta, sappiano collocare gli altri nella posizione sociale ed economica corrispondente al “merito” che solo loro vedono, scovandolo nei meritevoli con la risonanza magnetica. Il teorico Sandel parla di “meritocrazia tossica”, di “tirannia del merito”, di “tracotanza meritocratica”, di “meritocrazia che giustifica la disuguaglianza”. Queste e consimili acri espressioni gli servono per stigmatizzare dei difetti della società aperta, i quali il liberalismo né ignora né nasconde, come crede Sandel palleggiandosi tra le mani l’uovo di Colombo. Le critiche, per quanto radicali, non colgono l’essenza del problema perché la lingua di Sandel batte dove il suo dente duole: “Il successo spesso non è correlato al vero merito. Troppo facilmente diamo per scontato che i soldi che le persone guadagnano (o la loro visibilità pubblica) siano la misura del loro contributo al bene comune. È un errore”. Qui è lui, Sandel, che sbaglia due volte: la prima, perché l’unico “bene comune” consiste nella libertà di cooperare volontariamente mediante l’autonomia individuale, non in una “cosa” o un “obiettivo” specifico, concreto e definibile; la seconda, perché nel cooperare, non ci proponiamo di perseguire o contribuire al “bene comune”, ma all’interesse nostro. Inoltre, il “guadagno” non può essere commisurato al “bene comune” perché il metro di misura non esiste. Non ne dispongono dunque nemmeno i più sapienti degli uomini.
Pare proprio che il professor Sandel disconosca o non abbia meditato a sufficienza oppure non comprenda il significato del divertente apologo del chirurgo e dell’idraulico. A Ferragosto un celeberrimo chirurgo, chiudendo casa per le ferie, trova un rubinetto che gocciola. Finalmente rintraccia un idraulico, che elimina la perdita in un minuto. Il chirurgo tira un sospiro di sollievo, si spertica in ringraziamenti e mette mano al portafoglio. Con garbo l’idraulico gli chiede 500 euro per l’intervento. Nell’atto di pagare, il chirurgo obietta accigliato: “Glielo concedo. È Ferragosto e lei mi ha salvato le vacanze. Però io, un luminare della chirurgia, non guadagno 500 euro al minuto!”. L’idraulico gli batte la mano sulla spalla e sospira: “La capisco, mio illustre collega, quando facevo il medico neppure io guadagnavo altrettanto”.
Orbene, il professor Michael J. Sandel insegna Filosofia ad Harvard, nientemeno. Pertanto, il suo notevole successo dev’essere per forza correlato ai suoi meriti di studioso. Come illustre accademico sarà sicuramente contrario pure alla “onagrocrazia” vituperata da Benedetto Croce, suo collega filosofo. Mentre è relativamente facile mettere in cattedra un professore universitario, essendo cooptato da pari suoi viepiù qualificati, per contro le difficoltà sono insormontabili negl’infiniti casi lamentati da Sandel alla stregua di vergognose disparità perpetrate dal liberalismo e dal liberismo, con o senza neo. Perché strapagano milioni un dribbling di Messi o una prodezza di Maradona e malpagano i cosiddetti “lavoratori essenziali”, talvolta i più umili? Questa differenza economica, Sandel la vede, non la comprende, la dichiara ingiusta e la condanna. La ragione essenziale di tale differenza, insopprimibile nella società libera a dispetto delle migliori intenzioni egualitarie, sta in ciò che il valore è una cosa; il merito, un’altra. Esprimono funzioni sociali affatto diverse.
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Sgombriamo preliminarmente il campo dall’equità dei corrispettivi. Quanto una persona dovrebbe essere remunerata per ciò che fa o vende è un problema senza senso. Invece ha senso solamente quanto possa ottenere in cambio nella libera catallassi, una parola greca che significa scambiare (beni e servizi) e riconciliare. Nella cooperazione volontaria viene soddisfatto l’interesse di entrambe le parti, nazionali o straniere. Lo scambio catallattico significa infatti ricomporre le inimicizie e ammettere nella comunità. Sono risultati meravigliosi tutt’altro che discriminatori, tossici, tirannici! Si verificano perché il “merito” di Tizio viene determinato da Caio mediante un corrispettivo riferibile soltanto agli specifici beni o servizi offerti, non all’intera persona. Sotto questo riguardo potrebbe dirsi che Caio apprezzi il “valore” di Tizio. Ciò nel mondo reale, non nel mondo ideale dei Sandel.
Nel mondo ideale una smisurata albagia induce a credere che sia possibile, nella generalità dei casi, impedire remunerazioni maggiori di quelle appropriate al lavoro svolto o al servizio reso. A parte che esistono molteplici attività lucrose che costituiscono di per sé la maggiore remunerazione per chi le compia (per esempio, Indro Montanelli confidava che avrebbe scritto anche gratis; Luciano Pavarotti avrebbe cantato comunque e Picasso dipinto ovunque, ne sono sicuro), al professor Sandel il professor Friedrich August von Hayek, Nobel per l’economia, obietterebbe da par suo: “Nelle nostre relazioni con altri uomini ci consideriamo nel giusto quando ricompensiamo il valore con un valore equivalente, senza indagare quanto sia potuto costare a quel particolare individuo fornirci quei certi servizi. La nostra responsabilità è determinata dal vantaggio che traiamo da quanto gli altri ci offrono e non dal loro merito nel fornircelo. E così, nelle nostre relazioni con gli altri, ci aspettiamo di essere ricompensati non per il nostro merito soggettivo, ma per quel che i nostri servizi valgono per loro” (Friedrich A. von Hayek, La società libera, Rubbettino, 2011, pagina198).
Se trattassimo economicamente le persone secondo il valore che sembrano avere agli occhi della società o degli esegeti del malcontento anziché secondo il merito che di fatto ce le rende utili, adotteremmo, talvolta inconsapevolmente, una concezione “religiosa” della società perché affideremmo gli esiti delle nostre vite o, detto altrimenti, il nostro successo e i nostri compensi a valutazioni e decisioni di “autorità” che si arrogano una capacità di giudizio invece inesistente negli uomini. Tale è lo sbocco amorale del potere politico che presume di poter distinguere i “redditi guadagnati” dai “redditi non guadagnati”. Invece nella società libera prevale una concezione “umana” perché secondo natura.
Michael J. Sandel vede nella “meritocrazia” una trama di ingiustizie e discriminazioni che ostacolano i benefici altrimenti elargibili a tutti: “L’ideale di cui parlo in La tirannia del merito richiede che tutti, indipendentemente dalla provenienza di classe o dall’occupazione svolta, abbiano accesso ai beni essenziali della vita democratica (assistenza sanitaria, istruzione, lavoro, casa) ma anche il rispetto e la stima sociale”. Come ognuno può intuire, il filosofo Sandel non prospetta un’alternativa, ma l’ennesima utopia ugualitaria, ben oltre i servizi pubblici, fino alla reputazione garantita dallo Stato! Egli sembra, incredibilmente, ignaro del fatto che “l’accesso ai beni essenziali della vita” (un portato del liberalismo e del liberismo) non sarebbe affatto possibile se la società dovesse funzionare secondo il “merito” concepito alla sua maniera. Sandel non offre un’accettabile concezione sostitutiva della determinazione di compensi e posizioni in base al “merito” rettamente inteso semplicemente perché ne rifiuta i termini reali. Come spiega inoppugnabilmente Hayek, “molti fra quanti vogliono estendere l’uguaglianza non vogliono poi l’uguaglianza, ma una distribuzione più strettamente conforme alle convinzioni umane del merito individuale e i loro desideri sono tanto inconciliabili con la libertà quanto le richieste più esplicitamente ugualitarie”.
È paradossale questo Michael J. Sandel. Professore nell’elitaria Harvard, misconosce il merito e l’eccellenza. Fa tornare in mente il “18 garantito” che pretesero i contestatori nostrani negli esami universitari “perché tutti gli studenti sono uguali”.
Aggiornato il 06 marzo 2023 alle ore 09:32