Tripoli, ora e sempre “bel suol d’amore”

All’indomani del viaggio in Algeria del premier Giorgia Meloni avevamo espresso qualche timore per la possibilità che il nuovo Esecutivo cancellasse la pista libica dalle sue priorità. Il recente blitz della Meloni a Tripoli ha dimostrato che avevamo torto a preoccuparci. La Libia torna a essere un dossier caldo. Un’ottima notizia, se si considera quanto disastrosa sia stata la strategia adottata da tutti i governi italiani nell’ultimo decennio rispetto all’evolversi della crisi nel Paese nordafricano. Il centrodestra ha riconosciuto l’esistenza di un nesso causale tra la stabilizzazione della Libia e la sicurezza dell’Italia. E si è mosso di conseguenza. Bisogna ammetterlo: il fatto che Meloni si sia presentata a Tripoli avendo in tasca un progetto strategico del valore di 8 miliardi di dollari, volto a implementare la produzione di gas da destinare in parte al mercato interno libico e in altra parte all’esportazione verso l’Europa, è stato un colpo geniale. È ovvio che nell’affare vi sia lo zampino di Eni, che non ha rinunciato alla partnership libica. Le condizioni dell’accordo sono state bene riassunte da Fabio Marco Fabbri nel suo editoriale su L’Opinione di ieri. Si tratta di passare, entro il 2026, a un plateau di 750 milioni di piedi cubici di gas standard al giorno mediante lo sfruttamento di due pozzi offshore, localizzati al largo della costa della Tripolitania e che verranno collegati agli impianti di trattamento e compressione già esistenti nel complesso petrolifero della Mellitah Oil and Gas Bv, a 100 chilometri da Tripoli.

L’accordo prevede anche la costruzione di un impianto di cattura e stoccaggio di anidride carbonica. L’operazione sarà gestita da una joint venture tra l’Eni e la compagnia petrolifera statale libica Noc. L’iniziativa, alla quale le autorità di Governo della Tripolitania hanno aderito con grande entusiasmo, perché riporta gli investimenti esteri in un territorio devastato dalla guerra civile, coglie due obiettivi immediati e uno di medio termine. In primo luogo, reintegra l’Italia nella partita della stabilizzazione libica, dalla quale era stata clamorosamente estromessa per grave colpa dell’ex-premier Giuseppe Conte e del suo ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, incapaci di curare adeguatamente gli interessi nazionali nell’area. In secondo luogo, batte la concorrenza turca sul piano finanziario, che è quello a cui le autorità libiche sono più sensibili, ponendo un argine al dilagare dell’influenza di Ankara in Tripolitania. Sul medio termine, non v’è dubbio che la sottoscrizione dell’accordo costituisca un fondamentale tassello nella realizzazione del “Piano Mattei” che il Governo Meloni ha varato per assicurare all’Italia l’accesso a molteplici fonti di approvvigionamento energetico. Accanto al patto sullo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas va collocata una rinnovata intesa per la cooperazione in materia di contrasto all’immigrazione clandestina. In concreto, l’Italia consegnerà alla Guardia costiera libica cinque nuove motovedette per il pattugliamento delle acque territoriali. Non è la soluzione al problema, tuttavia è un segnale per la ripresa di un dialogo sul controllo dei flussi migratori che si era bruscamente interrotto dopo l’ingresso in campo del player turco al fianco del Governo di Tripoli.

Se la politica è realismo, alle condizioni date non ci si poteva attendere di più da un Governo italiano che, nel panorama delle relazioni internazionali, deve colmare i molti gap procurati dagli Esecutivi che l’hanno preceduto. Alcuni osservatori hanno fatto notare come l’opera di Giorgia Meloni sia riuscita a metà. Il fatto di aver stretto accordi con il Governo di unità nazionale, guidato da Abdul Hamid Al-Dbeibah e insediato a Tripoli, lascia fuori la parte maggioritaria del Paese nordafricano, distribuita tra la Cirenaica e il Fezzan, che si riconosce nel leader Khalīfa Haftar. Obiezione fondata, ma che non diminuisce il peso dell’offensiva diplomatica italiana. È evidente che Roma debba provare a parlare con il ras di Bengasi, giacché il fulcro della stabilizzazione del Paese interseca lo svolgimento di libere elezioni di un organo legislativo e di un Governo espressioni di tutte le componenti – e fazioni – della società libica.

È purtuttavia vero che, nonostante più volte annunciate, le elezioni non si sono ancora svolte. E neppure sono all’ordine del giorno nell’immediato futuro. Questo perché l’unità nazionale è incompatibile con l’azione di quelle forze di potere portatrici di irriducibili vocazioni egemoniche. E neppure piace ai molti attori esteri che negli ultimi anni hanno fatto capolino nell’affare libico. Parliamo della Russia, dell’Egitto, degli Emirati Arabi Uniti, che hanno apertamente sostenuto la pretesa di Khalīfa Haftar di mettere le mani su tutto il Paese e, sul fronte opposto, della Turchia che, essendo intervenuta a ricacciare indietro le truppe di Haftar lanciate all’assalto della capitale, di fatto ha assunto la posizione di lord protettore del Governo di Al-Dbeibah. Il tutto al netto del gioco sporco condotto dalla Francia la quale, pur avendo riconosciuto come unico legittimo il Governo di Tripoli, in linea con le disposizioni delle Nazioni Unite e dell’Unione europea, ha sottobanco finanziato la reazione della dissidenza cirenaica e armato l’esercito di Khalīfa Haftar.

Ora, benché il ritorno al processo di stabilizzazione democratica resti la strada preferibile, un sano realismo politico suggerisce di considerare la possibilità che i due protagonisti in campo, Haftar e Al-Dbeibah, non abbiano interesse a giungere alla fase del confronto elettorale. Nel caso, si consoliderebbe lo status quo. Tale scenario consiglierebbe al Governo italiano una scelta di campo, per non ripetere l’errore commesso dai precedenti Esecutivi. La reiterazione di un fare pilatesco circa le vicende interne libiche porterebbe alla definitiva esclusione del nostro Paese dalla partita della stabilizzazione. Cosa che l’Italia non può assolutamente permettersi. Se la visita-lampo a Tripoli dei giorni scorsi voleva dare il segno del ritorno in campo del nostro Paese nello scacchiere del Mediterraneo, bene è stato. Una volta lanciato il cuore oltre l’ostacolo, non resta che rimarcare la volontà del Governo di centrodestra di aver scelto chi sostenere e privilegiare tra i due contendenti. Non è più il tempo delle furbizie e dei tentativi grotteschi di tenere il piede in due staffe. Siamo con Tripoli? Allora niente ambiguità. Certo, sarà importante parlare con Haftar e provare a spendersi per la riconciliazione. Ma tanto più saremo credibili con i nostri interlocutori, quanto maggiormente sapremo dimostrare coerenza e saldezza di nervi. L’ennesima fuga dalle responsabilità non sarebbe capita. E ancor meno perdonata.

Aggiornato il 01 febbraio 2023 alle ore 10:25