Ma il Brasile è lontano?

Naturalmente siamo tutti scioccati dall’immagine dei palazzi del potere politico assediati e invasi dai manifestanti brasiliani. La notte non è stata piccola, per noi. Anzi, è stata davvero lunga per i tanti (o pochi) che a Brasilia – e non solo – avevano a cuore le sorti della democrazia. Dico non solo – o meglio, non soltanto – perché la voglia del golpe o dei golpe è più diffusa di quanto si pensi. Si può dire questo, parlando delle democrazie fragili, deboli. E qualcuno potrebbe suggerire… sudamericane. Non è un caso questa aggettivazione geografica circa i colpi di Stato, se è vero come è vero che nell’America Latina sono state più frequenti che altrove le dittature, prevalentemente militari, successive alle scelte democratiche.

Il caso brasiliano è tuttavia una storia a sé, una vicenda che non sembra calata dentro il clima infuocato e devastato di una situazione locale traballante e sull’orlo, appunto, di un violento cambiamento di regime. Certo, le elezioni avevano dato un risultato al fotofinish. Nel senso che la vittoria di Luiz Lula, come ben sappiamo, è stata ed è al limite, perché numericamente assai poco superiore rispetto ai numeri di un Jair Bolsonaro in ottima forma, speranzoso e con il vento in poppa, ma non così potente da spingerlo davanti alla navicella luliana. Di poco, è vero, ma è così. E come dice la canzone (e la storia): bisogna saper perdere.

Ora, ma solo adesso e ad alta voce, i bolsonaristi parlano di brogli e di risultati non limpidi. Ed è probabilmente vero, ma anche in questo caso la reazione dello sconfitto non è apparsa ferma, tempestiva e soprattutto lucida. Tutto quanto è avvenuto, infatti, dalle parti di chi non aveva vinto, sia pure di poco, le elezioni democratiche. Ciò è leggibile come una sorta di deragliamento sulla normale via. Ma è, anche e purtroppo, un ritorno delle non così antiche prassi brasiliane, se è vero come è vero che la fragilità del Paese proviene da una lunghissima tradizione antidemocratica, ovvero di governi più o meno militari, interrottasi qualche anno fa. Anche, e soprattutto, su pressioni degli Usa.

In questo quadro, la vicenda di un Donald Trump “golpista” si è ripetuta in Brasile con un nuovo primo attore, quel Bolsonaro che nel passaggio con Lula non dava alcun segno di protesta e che, comunque, senza alcun grido di vendetta se ne è andato a Miami, lasciando il campo ai brasiliani i quali, senza l’intervento dei militari a favore, sono stati messi all’angolo. Un quadro golpista a suo modo diverso, ma è facile ragionare sulla portata dell’esempio trumpiano da imitare. Infatti, qualcuno ritiene che questo virus non sia affatto finito e che il contagio potrebbe infettare i Paesi più deboli.

Nel frattempo, l’imitazione per così dire primaria dell’assalto populista a Capitol Hill ha trovato nel golpe brasiliano mancato (per ora?) una brutta copia che, tuttavia, possiede, per non poche nazioni fragili e con breve storia di democrazia compiuta alle spalle, un suo perverso richiamo. Il populismo, infatti, è l’acceleratore di simili esiti dove schiacciano il piede diversi Stati. A cominciare dalla Russia, il cui sistema autocratico vede con molta simpatia la crescita, in Europa e in Occidente, di movimenti e partiti in cui le pulsioni populiste sono accolte – se non auspicate – dai leader russi, non a caso impiegati giorno e notte nel ruolo di incitatori e coltivatori della mala pianta del populismo, che nei Paesi a forte tradizione democratica stenta a crescere.

È chiaro che il “golpe” brasiliano è rivolto a istituzioni più fragili e più deboli. Ma non vi è dubbio che la partita che si gioca in Brasile riguarda la democrazia nel suo complesso, proprio perché – come dicevamo – abbiamo a che fare con un virus dalla morte sempre apparente.

Aggiornato il 11 gennaio 2023 alle ore 09:57