Il mio 25 Aprile ai tempi dell’Msi

A proposito delle assurde e strumentali polemiche sulla fiamma e l’Msi, il 14 aprile del 1994 pubblicavo sul Secolo d’Italia, allora organo del Movimento Sociale italiano, un articolo che cominciava così: “Voglio festeggiare il 25 Aprile e voglio dedicarlo a mio Padre, comandante partigiano”. Lo ripropongo oggi, integralmente, come prova non tanto della personale coerenza che ho cercato di mantenere nelle mie scelte, quanto del fatto che l’Msi, pur venendo da diverse radici, fu pure un partito democratico e tollerante anche prima della svolta di Fiuggi e della trasformazione, grazie a Gianfranco Fini e Giuseppe Tatarella, in quella Alleanza Nazionale che chiuse gli anni delle divisioni e di cui Fratelli d’Italia e l’attuale Governo si pongono, oggi, come eredi, in una visione storica in cui gli elementi fondamentali da preservare sono sempre e solo la Libertà e l’Italia.

Ecco l’articolo di allora.

Voglio festeggiare il 25 Aprile e voglio dedicarlo a mio padre comandante partigiano, perché combatté, ma soprattutto perché mi diede da bambino gli elementi per condividere, più tardi, la convinzione di Arnold Toynbee: il dramma della storia è che quasi sempre le ragioni e i torti sono da entrambe le parti. Chiesi a mio padre, dopo un documentario degli anni Cinquanta, cosa avesse provato il 25 Luglio alla caduta di Mussolini. “Ho pianto”, mi rispose. Ti piaceva Mussolini? “No, non mi piaceva più, ma voleva dire che avevamo perso la guerra”. Dunque, l’Italia restava l’Italia, indipendentemente da chi governava e la politica non era semplice. L’otto Settembre del ’43 era in licenza premio per un atto di valore per cui fu proposto per la medaglia d’argento. Non l’ebbe mai, non ci fu più un esercito nazionale per concederla. Tentò di raggiungere testardamente, più spesso a piedi che in treno, il suo reparto in Croazia. All’altezza di Venezia (era il dodici di Settembre) capì che non avevamo più un esercito, né un Paese e ritornò a casa, a Reggio Emilia. Non sapeva cosa fare. No, non gli era affatto chiaro quale fosse la via dell’Onore (ragionava così) e non era chiaro per nessuno, qualunque cosa ci abbiano detto in seguito. Poi gli avvenimenti decisero per lui. Il non aver aderito alla Rsi (aveva giurato fedeltà al Re) aveva fatto automaticamente di lui un disertore, l’arresto di sua sorella (suo marito era diventato partigiano) lo colpì emotivamente, l’appello monarchico di Radio Bari gli fornì la sensazione di una continuità, e un prete, in confessionale, gli disse che da Roma chiedevano la formazione di bande armate non comuniste per evitare che questi ultimi, dopo l’ormai sicura sconfitta tedesca, prendessero il potere.

Nacquero così le Fiamme Verdi perché, in pochi, si cucirono le mostrine sugli abiti borghesi per coltivare un’illusione, quella di essere ancora soldati del nostro esercito. Per principio non sparò mai un colpo contro altri Italiani (qualche colpo lo scambiò coi tedeschi), sua sorella fu liberata per l’intervento di un gerarca locale (ci andò a parlare personalmente e si qualificò come comandante partigiano: gli andò bene), dopo il 25 Aprile firmò di suo pugno un gran numero di salvacondotti del Cln per gli aderenti alla Rsi. Ne salvò parecchi. Protettore dei fascisti lo bollò la propaganda comunista.

Fondò la Dc a Reggio Emilia e ne era segretario nel ’48, nel momento del pericolo comunista (pericolo reale da quelle parti) e poco dopo, mentre molti la cominciavano, abbandonò l’attività politica. Erano passati nove anni da quando era partito volontario. Un giorno, molti anni dopo, chiesi le motivazioni delle tante scelte che aveva fatto. “Furono le circostanze – mi rispose tranquillo – oh certo, allora trovai tante motivazioni e anche vere, ma oggi mi rendo conto che in condizioni diverse (un altro momento, un’altra città) avrei potuto fare altre scelte o non farne nessuna: non eravamo realmente padroni delle nostre decisioni”. Questa è la storia di mio padre, così come gliel’ho sentita raccontare tante volte, senza nessuna pretesa di Verità Storica. Era la sua (e la mia) verità.

Ed è così, parlando con mio padre, che ho imparato a cercare di essere critico, che ho acquisito la curiosità della Storia e la diffidenza per il suo uso politico, così ho potuto reagire con disgusto ai tentativi della sommersa storiografia revisionista di negare l’orrore dei campi di sterminio nazisti e a quelli della verità ufficiale di santificare le bombe al fosforo sulle città tedesche. Così ho riflettuto sulle grottesche contraddizioni dei razzisti sassoni tedeschi, alleati del Giappone contro i sassoni inglesi, e su quelle delle grandi democrazie alleate con Stalin. Ho riflettuto sulla Polonia invasa da russi e tedeschi e sulla guerra dichiarata solo a questi ultimi. Ho riflettuto su Hiroshima e Nagasaki, sulle atomiche sganciate (a Germania già sconfitta) su di un Giappone sconvolto, alla fame, privo di materie prime e di flotta, chiuso ormai nella sua isola e mi sono detto che quei trecentomila giapponesi uccisi furono in realtà l’unica cosa che spaventò Stalin, furono il prezzo orrendo per la libertà dell’Europa occidentale. E dopo aver visto il ghigno della Realpolitik, sotto il bistro delle ideologie, mi è divenuto impossibile odiare veramente l’avversario politico. Mi è divenuto impossibile credere talmente alla mia verità da essere disposto a seppellire quella altrui.

Tutto e tutti uguali dunque? No, credo che la Libertà sia meglio della schiavitù e che la democrazia sia meglio della dittatura, ma so anche che l’Italia è stata una delle meno sanguinarie (credo la meno sanguinaria) di tutte le grandi potenze impegnate nel conflitto. Anche questo è un bilancio. Giovanni Basini capì la necessità e la giustizia della pacificazione, mentre la guerra ancora durava. Capirlo allora non era da tutti, non capirlo oggi è indecente. E questo è il mio venticinque aprile.

Aggiornato il 10 gennaio 2023 alle ore 09:41