Salvini, il Carroccio e Amleto

Il centrodestra e il Governo Meloni possono dormire sonni tranquilli, cullandosi sugli allori del feeling che hanno con la nazione? Nient’affatto. I rapporti all’interno della coalizione sono solo apparentemente stabili. Molto si muove che potrebbe, alla lunga, minare la solidità dell’alleanza. Se dovessimo stilare una classifica del rischio, al primo posto indicheremmo il malessere della Lega. Il partito di Matteo Salvini ha subito una grave sconfitta elettorale, che non può essere archiviata come una fisiologica fase di riflusso del consenso rispetto ai picchi raggiunti negli anni precedenti. È di più. La Lega è stato il partito maggiormente votato alle Europee del 2019. Con il primo Governo Conte, del quale Salvini era ministro dell’Interno, tutto andava a gonfie vele per il “Carroccio”. Poi il calo graduale, fino al crollo certificato dalle urne del 25 settembre scorso.

Si dice che siano le vittorie ad avere molti padri mentre le sconfitte siano quasi sempre orfane. Potrebbe valere anche per la Lega, visto che il pessimo risultato elettorale non ha portato alla crisi della leadership. Il “Capitano” è rimasto al posto di comando. Eppure, c’è stato qualcosa di sbagliato che ha fatto precipitare il consenso dal 34,26 per cento delle Europee nel 2019 all’8,77 per cento delle Politiche (Camera dei deputati) nel 2022. Non basterebbe questa pagina per elencare gli errori commessi dal capo leghista. Ma preferiamo non infierire, limitandoci a indicare la madre di tutte le delusioni che il leader Matteo Salvini ha inferto al suo popolo. Il “Capitano”, nel 2014, si era intestato una svolta del partito in senso nazionale, euroscettico e sovranista che ha molto fruttato in termini di consenso. La rappresentazione del Salvini catalizzatore dello scontento dei ceti medi produttivi tradizionali, penalizzati dagli effetti della globalizzazione economica selvaggia, è stato un must di successo. Ancor più perché il risultato è stato conseguito partendo dalla sconfessione di una Lega delle origini, politicamente consunta e moralmente devastata, in un momento storico segnato dalla fase ascendente del fenomeno grillino.

Al qualunquismo nichilista dei Cinque Stelle Salvini ha contrapposto un sogno da condividere con un’opinione pubblica depressa dalla crisi economica. Pochi ingredienti sono bastati per comporre la ricetta Salvini, ma di grande efficacia per un’Italia intimamente umiliata dalla vicenda della defenestrazione del legittimo Governo Berlusconi e della sua sostituzione con il “commissariamento” europeo di cui è stato interprete ed esecutore Mario Monti, il premier spuntato dal nulla. Salvini rispondeva all’istanza degli italiani di stare in Europa a schiena dritta, di ritrovare il benessere perduto e, con esso, la fierezza di nazione libera e di potenza economica florida, nonché un orgoglio nazionale in grado di parlare la stessa lingua dal Nord al Sud del Paese. Lo ricordiamo tutti il “Capitano” tra i pescatori di Mazara del Vallo, frustrati dalla crescente impossibilità di pescare nel Mediterraneo meridionale senza essere vittime di soprusi da parte dei libici e dei tunisini; tra i piccoli imprenditori calabresi, strozzati dalla pervasività corruttiva e intimidatoria della malavita organizzata. Contro ogni previsione, che dava i meridionali assolutamente impermeabili alle lusinghe di un leghista del Nord, Matteo Salvini ha fatto breccia nei cuori di tanti “terroni”. Gli hanno creduto. Erano certi che la sua Lega fosse un’altra cosa rispetto a quella bossiana, egoista, bottegaia, razzista, narcotizzata dalla pseudo mitologia padana del “Dio Po”. Ma c’è stato il “Papeete” e quello che è accaduto è la storia di una disonorevole retromarcia, vissuta nell’ambiguità di una leadership che il passo indietro l’ha provocato subendolo, più che volendolo.

Sarebbe, tuttavia, riduttivo descrivere l’involuzione della Lega come una regressione dalla forma del partito nazionale allo stadio primordiale di sindacato dei territori del Nord. Anche l’allontanamento dal blocco sociale appena conquistato ha avuto il suo peso. La transizione da movimento, voce ed espressione dei ceti medio-bassi impoveriti dalla globalizzazione a partito organico delle istanze corporative delle grandi imprese – rappresentate da Confindustria – ha generato il disorientamento registrato nella cabina elettorale. La delusione per l’identità tradita ha toccato l’acme con l’adesione al Governo di unità nazionale di Mario Draghi, costruito sul patto consociativo con il Partito Democratico e con la galassia pulviscolare dei partitini del centrosinistra e del progressismo radical-chic.

Beneficiario dello scontento per la regressione identitaria leghista è stato il partito di Giorgia Meloni che, dal 2020, ha cominciato a crescere nei sondaggi a ritmo inversamente proporzionale al consenso assegnato alla Lega. Fino al soprasso di Fratelli d’Italia che, partito dal Sud, ha raggiunto l’elettorato del Nord. Oggi la Lega è in fase congressuale e i suoi quadri dirigenti, con il contrappunto dei militanti, riflettono sui propri destini politici in toni shakespeariani, debordanti per acuti amletici. La leadership salviniana non è in discussione. Anche perché i potenziali competitori dovrebbero essere i medesimi “colonnelli” che hanno spinto Salvini all’inversione di rotta costata cara al partito.

Il Congresso è anche il luogo nel quale fare emergere il dissenso interno. Ed è ciò che sta accadendo con una fronda di dissidenti che è riuscita a conquistare la guida di qualche federazione provinciale lombarda del partito, come nel caso di Bergamo e di Brescia. Si tratta di vampate di “nostalgismo” bossiano che ritornano sottoforma di opposizione organizzata all’interno del partito. Ora, che si discuta ci sta, tuttavia è nostra opinione che la resurrezione politica dei nostalgici sia la risposta sbagliata alla crisi in atto. Prendersela con il leader, accusandolo di aver dimenticato la difesa del Nord a vantaggio del dimensionamento nazionale del partito, denota una visione “luddista” della dinamica politica, antistorica e dannosa. Non è rinchiudendosi nel recinto padano che la Lega potrà tornare a crescere nei consensi. Anche nel Settentrione d’Italia l’opinione pubblica non vuole soluzioni isolazioniste. Lo prova il fatto che quell’elettorato mobile – che tra il 2014 e il 2019 ha dato progressivamente fiducia a Matteo Salvini – non sia rifluito nell’astensionismo ma si sia riversato sul più centralista dei partiti italiani, quello di Giorgia Meloni.

A Salvini, per risalire la china, non restano che due mosse a disposizione. La prima: non mollare definitivamente il rapporto con il Sud del Paese. Il 23,46 per cento (1.285.329 voti) ottenuto nella circoscrizione dell’Italia meridionale alle Europee del 2019, a cui va aggiunto il 22,42 per cento (454.935 voti) dell’Italia insulare, rappresenta un patrimonio politico da recuperare a ogni costo. E restano meno di due anni dalle prossime Europee. Il processo di radicamento al di sotto della linea Bernhardt – roba da Seconda guerra mondiale – va proseguito e, se possibile, intensificato. Con una sola precauzione: evitare d’imbarcare residui del vecchio armamentario clientelare, prevalentemente di matrice democristiana, in auge durante la Prima Repubblica. La seconda: svolgere un gran lavoro al ministero delle Infrastrutture che dia risultati tangibili. Dopo la prova superata brillantemente da ministro dell’Interno nel Conte I, una seconda performance di alto livello alle Infrastrutture restituirebbe al politico Matteo Salvini parte della credibilità perduta. Il resto potrebbe farlo la memoria corta degli italiani, sempre inclini a dimenticare in fretta gli errori compiuti da chi li ha governati. Una risalita elettorale della Lega, oltre che giovare all’autostima del suo leader, sarebbe salutare per il destino del Governo Meloni.

Un alleato estremamente indebolito dal dato elettorale potrebbe mettere a rischio la stabilità dell’Esecutivo. Ne scaturirebbe un serio problema, giacché il Governo Meloni le sue chance potrà averle solo se riuscirà nell’arco della legislatura a mostrare fattualmente agli italiani i segni del cambiamento promesso. Riguardo ai sommovimenti intestini in casa Lega, occorre che rimangano tali. Bene che ci si confronti, il dibattito interno è linfa vitale per le organizzazioni partitiche. A patto, però, che la discussione, per quanto ruvida ed elettrizzante, non vada oltre una robusta bevuta tra simpatici buontemponi, usi a indossare elmi con le corna nelle sagre di paese.

Aggiornato il 08 dicembre 2022 alle ore 09:39