La vecchia e bonaria caricatura, con cui si apre questo articolo, ci mostra un uomo mite e a lungo perseguitato, come Alcide De Gasperi, raffigurato come lupo in agguato, mentre Palmiro Togliatti, funzionario dell’Internazionale comunista staliniana, addirittura come innocente Cappuccetto Rosso. È solo una satira ironica e dal tratto elegante, ma fa riflettere sulle esagerazioni e le iperboli con cui, nel corso della storia, sono stati demonizzati i nemici e non solo dai poteri che oggi definiamo assolutistici e dogmatici (come la Santa Inquisizione romana o il “feroce Saladino”), ma anche da quelli che storicamente consideriamo giusti perché tappe della democrazia.

Per spiegare cosa voglio dire, prenderò un esempio che considero globalmente positivo: la Rivoluzione Francese. Anche lasciando da parte Robespierre e Marat, come non ricordare la ferocia delle parole della “Marsigliese” che, anche se le sue note in me e in tanti altri fanno ancora battere il cuore per la Libertà, non possono non far riflettere dove raccontano del “muggire” dei soldati nemici (non rettiliani, ma semplicemente inglesi, austriaci, tedeschi) e dell’augurio che con il loro “sangue impuro” venissero irrorati i campi francesi?

Anche quelle parole, ci piaccia o no, instillarono nel popolo francese la convinzione di una missione civilizzatrice globale che li spinse, parzialmente dimenticati gli ideali democratici, a portare la guerra in tutta Europa in nome dell’Impero. Quando si dichiarano “valori assoluti e non negoziabili”, quelli scaturiti da una rivelazione religiosa dogmatica (intesa in senso integralista) si apre la strada a un sistema assolutista e spesso inumano, ma a suo modo spaventosamente coerente. Quando invece si pretende di trasformare in “fede” i più che giusti ideali di libertà e democrazia, quando insomma si trasforma la ragione in Dea Ragione, se ne mina in realtà la più profonda essenza, perché si distruggono il  relativismo che ne è alla  base e la tolleranza che ne deriva.

La democrazia liberale può arrivare, così, a negare se stessa e questo soprattutto in guerra. In ogni sistema in cui l’opinione pubblica conservi un qualche peso, la politica di potenza ha bisogno allora di una “mostrificazione” del nemico, crescente con il crescere della violenza che si esercita, per poterla in qualche modo giustificare e questo fino all’estremo di negare non solo ogni eventuale buona ragione, ma anche ogni caratteristica di umanità nel regime del nemico, come fu, ad esempio estremo, per le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

La narrazione, per chi si lasci condizionare dai facili dettami del persiano Mani, deve essere univoca. Il male da una parte, il bene da quell’altra, in perenne lotta tra di loro. Non c’è posto, insomma, per i ragionatori che riflettono o che, peggio ancora, considerino –anche solo parzialmente – i punti di vista degli “altri”. Quando una crisi politica sale di intensità, si crea così una “gabbia delle parole” in cui i protagonisti rimangono prigionieri, costretti ad un succedersi di atti di spavalderia verbale che li condizionano sempre più. Fino ai casi limite in cui i leader, per non perdere la propria faccia, irresponsabilmente non considerino più la vita altrui.

Nella Prima guerra mondiale, nazioni europee tutto sommato molto simili, per cultura, civilizzazione, sviluppo economico, dovettero inventarsi le più incredibili reciproche accuse, le più capziose delegittimazioni storiche, per giustificare quella che fu in realtà, secondo le parole di Benedetto XV, solo una enorme “inutile strage”, che ci lasciò un mondo peggiore di prima. E questo, sia chiaro, non toglie nulla alla buona fede e all’eroismo di chi si batté sul Piave, perché a quel punto non c’era più nulla da fare. Per i “cittadini in uniforme” si trattava ormai di noi o loro, di completare o distruggere l’opera del Risorgimento, ma questo non assolve affatto i politici e gli “agitatori culturali” che, contro Giovanni Giolitti e la maggioranza parlamentare, crearono le condizioni della guerra. E lo stesso fu per le altre nazioni coinvolte.

Rifletto su queste cose, oggi, perché, in Ucraina, le narrazioni delle parti in lotta sono state radicalizzate fino ad essere totalmente incompatibili. Da un lato i nuovi nazionalisti ucraini, esasperati dallo scontro, che considerano il Paese, reso indipendente dal crollo dell’Unione Sovietica, come non russo in toto, nonostante i secoli di unità (a parte l’area di Leopoli, precedentemente Austro-Ungarica). Un Paese che vuole essere nell’Unione europea e ne rivendica il pieno diritto e che ha dunque visto nell’attacco russo solo una aggressione straniera, violenta e ingiustificata, che ricorda loro dolorosamente i massacri sociali staliniani. Dall’altro la tradizione russa, che non solo vede l’Ucraina come parte costituente della Russia e anzi luogo stesso di nascita del termine “Rus”, ma che considera l’Ucraina indipendente come una creazione, durata poco più di due anni, imposta dall’esercito tedesco con la pace di Brest-Litovsk prima della sconfitta della Germania nella Grande guerra, che vede poi nei moti di piazza Maidan un colpo di Stato contro un Governo filo-russo regolarmente eletto e nel divieto di insegnamento del russo, parlato da circa metà della popolazione, la prova di un’oppressione (e il tutto come il prodotto dalla volontà di dominio nord-americana). E le due narrazioni manichee non ammettono dubbi o sfumature.

Se da noi consideri anche solo un po’ criticamente la posizione di pratica cobelligeranza e le autodistruttive sanzioni, diventi un assoldato putiniano nemico della democrazia e dell’Occidente, dall’altra se mostri poco entusiasmo bellico per i sanguinosi bombardamenti a tappeto sei un traditore meritevole della galera. E su queste basi, naturalmente, ogni compromesso diventa impossibile, perché viene bollato addirittura come sconcio e immorale. E il mondo scivola così molto pericolosamente lungo il piano inclinato della crisi economica e di una guerra generalizzata. I russi hanno certamente avuto torto ad attuare una ottocentesca, grave e brutale “politica delle cannoniere”, in spregio di ogni convenzione, ma neanche noi avevamo tutte le ragioni a lasciar destabilizzare il centro dell’Europa e non in una delle storiche nazioni occupate dai comunisti come la Polonia o l’Ungheria, ma nel cuore stesso dell’ex Unione Sovietica. E così oggi, forse, dovremmo almeno interrogarci se la completa vittoria finale di una delle parti sarebbe davvero la migliore delle soluzioni e non solo perché probabilmente allungherebbe a dismisura la già tragica catena di morti, ma anche perché il rifiuto “etico” di ogni compromesso, in un mondo in cui convivono regimi del tutto diversi e tanti conflitti locali, sembra voler indicare che la vittoria finale è l’unica possibile soluzione. Un pessimo esempio per il futuro del mondo.

Io non sono e non sono mai stato, un “pacifista ideologico”, ma pacifico sì, posso concepire di dare anche la mia vita per la Libertà, ma la mia non quella di tutti, come si rischia in epoca nucleare e mi pongo una domanda, anzi due. Se Sir Neville Chamberlain, nel 1938, a Monaco, avesse tenuto duro – avesse cioè rifiutato la cessione dei Sudeti alla Germania – cosa sarebbe successo? Forse è storicamente vero che, in quel caso, lo stato maggiore dell’esercito tedesco avrebbe fatto un colpo di Stato e nominato il generale Ludwig Beck capo del Governo, allontanando così il nazismo e la guerra, mentre la vittoria a tavolino di Adolf Hitler rese invece impossibile deporre il momentaneo vincitore. Forse sì o forse sarebbe andata nello stesso modo, non possiamo saperlo. Ma quello che sappiamo benissimo è che mentre la storia politica spesso si ripete, scienza e tecnologia invece avanzano e cambiano davvero il mondo. E allora la domanda legittima se Chamberlain abbia o meno sbagliato col suo approccio pacifista, oggi, in epoca nucleare, è improponibile. Perché oggi Chamberlain avrebbe ragione. La bomba fa la differenza. L’abbandono degli afghani e – all’epoca dello Scià – degli iraniani è stato un non obbligato, cinico e vile tradimento, un compromesso in Ucraina è, invece, una reale necessità. Per un liberale anche la peggiore delle società libere è meglio di un regime autoritario, ma oggi semplicemente non possiamo non tener conto dei rischi nucleari, perché per essere liberi dobbiamo anzitutto restare vivi e nessun orgoglio politico, nessun sofisticato calcolo delle reazioni, nessun ottimismo scettico, nessun bluff elettorale possono far dimenticare che è solo con un cessate il fuoco – e un effettivo compromesso tra i due ormai diversi e nemici popoli – che possiamo davvero uscire da un grave pericolo. Un pericolo collettivo che rischia di coinvolgere anche i semplici cittadini che, a Roma, a Parigi o a Berlino non hanno davvero nessuna colpa della situazione.

Gli ucraini, qualunque fosse la situazione prima della guerra, hanno oggi, con la loro abnegazione, davvero tutti i diritti di sentirsi un altro popolo, di essere indipendenti e di andare dove vogliono. Tutti i diritti tranne uno: quello di portarsi dietro quelli dell’Est che vogliono restare russi e di cui non si può semplicemente voler negare l’esistenza. Con un cessate il fuoco, si possono trovare gli strumenti per cercare soluzioni che garantiscano nei loro desideri tutte le popolazioni. Con il proseguire della guerra, di una guerra come questa, molto probabilmente no. E questa credo che sia una semplice verità, che tutte le nazioni occidentali dovrebbero riconoscere, difendendo giustamente l’Ucraina, ma senza seguire insieme logiche di potenza. Ma anche in termini di pura Realpolitik tutti gli occidentali dovrebbero riflettere sull’enorme errore di spingere un grande Paese nucleare, europeo e cristiano e che, sia pur tra mille misfatti e contraddizioni, non era più l’Urss totalitaria e chiusa, nelle braccia della Cina comunista, che è e resta di gran lunga il più pericoloso, potente e irriducibile avversario.

Gli europei, poi, che hanno il legittimo interesse a scambiare manufatti con materie prime, devono poter riprendere i loro commerci e ritrovare un peso politico paragonabile a quello economico, senza rinunciare affatto alla storica e naturale partnership atlantica, ma su di un piano di maggior parità, che gli consenta di difendere i loro interessi e non solo quelli materiali, ma anche quelli morali di indipendenza di giudizio.

Gli statunitensi, infine, i nostri tradizionali alleati e amici, di quella terra di Libertà che, nonostante la “cancel culture”, è e resta l’America, devono proseguire la politica di moderazione forte e ordinata tenuta per cinquant’anni durante la Guerra fredda e, senza ascoltare i pericolosi bellicisti più esaltati, seguire con accorta e bene armata attenzione gli avvenimenti, vigilando dalla riva del fiume, perché una grande democrazia può vincere o perdere una guerra ma la pace, alla lunga, la vince invece sempre.

Nella mia memoria di bambino, in quegli anni del Dopoguerra, quando i racconti riportavano spesso episodi vissuti sui vari fronti, ho vivo il ricordo di mio padre che raccontava di come, prima del conflitto, avesse avuto un violento scontro nel Guf con alcuni colleghi, per il suo rifiuto di manifestare per la nostra entrata in guerra. Solo che il 10 giugno del 1940 lui si presentò volontario, quei colleghi no e anche dopo, quando da ufficiale monarchico fece la resistenza, non ne vide traccia.  Coloro che liberali, democratici, europeisti e atlantisti lo sono davvero e lo sono fin dalla nascita dell’Unione europea e del Trattato dell’Atlantico del Nord, non scordano che queste alleanze nacquero anche in funzione anticomunista e per stabilizzare la pace. E tali dovrebbero restare.

Aggiornato il 03 novembre 2022 alle ore 16:39