Il tricolore, la bandiera e la fiamma

I discorsi di Giorgia Meloni nel chiedere e incassare la fiducia delle Camere del Parlamento – con un eccezionale siparietto con Debora Serracchiani – disegnano il profilo d’un Governo conservatore di una democrazia liberale, autorevole e quindi non autoritario. Ciò accade nel centenario, lo si ripete, della fondazione del Partito liberale italiano e della marcia su Roma, con una implicita scelta tra i principi del primo e le velleità della seconda.

Non è inutile, ora, chiarire come ciò rappresenti il significato di una precisa evoluzione di quella fiamma tricolore a cui il suo partito non rinuncia. Quella fiamma fu simbolo del Movimento sociale italiano. Partito sorto, nel 1946, indubbiamente tra neofascisti repubblichini. Una fase estremista durò però fino al 1954. Con la pratica parlamentare, l’appoggio al Governo di Fernando Tambroni Armaroli (nel 1960), l’opposizione al costituirsi del centrosinistra, con l’ingresso nell’Esecutivo del Partito socialista italiano di Pietro Nenni e l’uscita del Partito Liberale di Giovanni Malagodi, quel partito – con Giorgio Almirante – assunse il tono di una opposizione “in doppio petto”, cioè rispettosa del quadro costituzionale.

Tuttavia, l’appoggio occasionale dato a certe posizioni democristiane rimase sempre “esterno” per una “conventio ad excludendum” da un certo “arco costituzionale” tra i partiti, un tempo membri del Comitato di liberazione nazionale. Ciò fu per includere un partito comunista che s’intendeva tenere buono. Giorgio Almirante tentò di costituire una Destra nazionale dove far confluire tutte le forze anticomuniste all’opposizione del centrosinistra. Nel 1972, il Movimento sociale si fuse con il Partito democratico italiano di Unità Monarchica di Alfredo Covelli, una “opposizione di Sua Maestà” d’orientamento liberal-conservatore. Una Costituente di Destra, riunita a Roma, a Villa Miani, presieduta dall’economista liberale Ugo Papi, maestro di Antonio Martino, cominciò a soffiare sulla fiamma, già allora, con un vento diverso.

Purtuttavia, Malagodi a quel tempo rifiutò la partecipazione del Pli. Il disegno, forse, rimase incompiuto ma si continuò a camminare. Liberali del calibro di Salvatore Valitutti furono presenti ai convegni della Fondazione Gioacchino Volpe, organizzati dal figlio, l’ingegnere Giovanni. Questultimo, ad esempio, come editore, ripropose al pubblico della Destra il pensiero di Maffeo Pantaleoni. Giovanni Volpe morì sul campo, nel 1984, nel corso di uno dei suoi convegni. Il suo corpo, adagiato sul tavolo della presidenza nel Palazzo della Cancelleria, ostentò una dignità da cavaliere antico.

Giorgia Meloni aderì al Fronte della Gioventù nel 1992, quando questo avvicinamento culturale della fiamma a un’atmosfera liberale era praticamente compiuto. Poi il 1994 e la discesa in campo di Silvio Berlusconi sono cose note. Oltretutto difficili da dimenticare, visto che a rinfrescare la memora ci pensa lui di persona, come nel discorso in Senato per la fiducia al Governo. In quel 1994 si svolse l’ultimo congresso del Partito liberale italiano, cui seguì il lungo sonno del ghiro in letargo. A quell’ultimo congresso assistette, per il Movimento sociale italiano, l’onorevole Giulio Maceratini, che pose l’accento sul patriottismo che univa, a quel punto, le due formazioni: le uniche, all’epoca, a sbandierare il tricolore. Una sulla bandiera, l’altra sulla fiamma.

Nessuno, oggi, può dare lezioni a Giorgia Meloni, né per patriottismo e neppure d’adesione alla democrazia liberale e allo Stato di diritto. Eppure, se si confederasse con quel piccolo circolo, perché tale realisticamente è, ne avrebbe un vantaggio nel confronto d’idee. Anche nella comunicazione politica, e non solo per il made in Italy. I marchi hanno il loro valore.

Aggiornato il 29 ottobre 2022 alle ore 09:22