A Giorgia Meloni, oggi guida del Governo italiano

Lo statista guarda alle prossime generazioni, il politico alle prossime elezioni. Questa nota distinzione che in Italia fu propria di Alcide De Gasperi e coniata da James Freeman Clarke nella seconda metà dell’Ottocento, esprime a suo modo una realtà inconfutabile, ma parziale, perché, affinché lo statista emerga, occorre però che il politico che è in lui prima vinca le elezioni o che si faccia appoggiare da chi le ha vinte. Il che, a ben guardare, non è poi molto diverso da quello che facciamo tutti con le nostre famiglie, coltivando idee e prospettive che poi magari faticosamente realizziamo, ma dovendo intanto provvedere alla vita di tutti i giorni.

Ricordo questa esigenza di far convivere la tattica con la strategia per Giorgia Meloni, protagonista politica abile e accorta a capo del nuovo Governo, perché si trova, come sempre accade, di fronte a problemi sia del presente che del domani, ma in una forma oggi drammaticamente divaricata, quando non addirittura contraddittoria, tra problemi urgenti e problemi strutturali. Per primo esempio, l’esigenza immediata di evitare che l’esplosione del costo delle materie prime energetiche, causa la guerra, porti al collasso e al fallimento di una parte significativa del nostro sistema industriale e commerciale (e alla conseguente disoccupazione) conduce all’obbligo di agire subito con denaro pubblico in deficit, ma si scontra però con il nostro problema principale di un grande debito pubblico, già giudicato con sospetto dal mercato. In passato molti politici hanno applicato la regola del far debito subito, prima delle elezioni, tralasciando il dopo, il che ricorda un po’ Charlie Brown quando sconsolato si lamenta del fatto che “hanno scaricato tutti i problemi sulla nostra generazione, che fare?” avendo per risposta da Lucy “scarichiamoli sulla prossima!”, solo che il gioco, durato da troppo tempo, comincia a non funzionare più, le agenzie di rating ci controllano da vicino e da loro (e dalla speculazione) dipende il costo del denaro che prendiamo a prestito per rinnovare il debito e, se questo sale troppo, il beneficio solo momentaneo si traduce in un ulteriore aggravio per il futuro. E allora l’approccio deve essere globale e non solo economico, ma anche politico, a cominciare da una giusta pressione per passare dai cannoni alla diplomazia. Occorre trovare le risorse per abbassare i prezzi del gas, ma sottraendole allora almeno in parte alla spesa sociale meno giustificabile, comperare gas liquefatto (seppur più caro), navi rigassificatrici e rendere policombustibili le centrali termiche per le esigenze immediate, ma impostare contemporaneamente nuovi gasdotti e centrali nucleari (di fatto le più rispettose dell’ambiente) per il prossimo futuro, per diversificare non solo i fornitori di gas, ma anche le fonti di energia e poi sbloccare rapidamente tutte le ragionevoli licenze di trivellazioni nazionali, dighe e nuove rinnovabili. Facendo questo non solo si spalma la spesa su più esercizi finanziari per i differenti tempi di realizzazione, ma si rende più credibile – e dunque meno caro – ai mercati il nostro debito, perché qualunque banchiere preferisce prestare soldi, anche a lungo termine, per finanziare un bene durevole, che per finanziare una vacanza o un oggetto rapidamente deperibile. Ma non è certo l’unico problema. L’Italia, grande Paese manifatturiero, è però presente in maniera significativa, solo nei settori più maturi della produzione industriale, dove era già forte nel secolo scorso, siamo molto deboli in tutte le produzioni più moderne e a più alto valore aggiunto, dai semiconduttori ai microprocessori, dai computer alla telefonia mobile, dalle batterie ad alto rendimento all’avionica, dai lanciatori alle reti satellitari, dalla biochimica all’intelligenza artificiale. Economicamente siamo stretti in una tenaglia tra i grandi Paesi produttori di prodotti avveniristici e detentori dei relativi brevetti e Paesi emergenti che stanno producendo i beni tradizionali con costi di lavoro bassissimi e possiamo difenderci solo in parte col design e il fascino del “made in Italy”. Per modernizzare l’industria, dobbiamo attuare una profonda riforma del mercato finanziario, che renda più agevole la formazione di capitale di rischio, ma non solo.

L’Italia liberale Umbertina non esitò a supplire con capitali pubblici alla scarsezza di capitale privato, dando finalmente vita ad un’industria pesante nazionale, non dobbiamo esitare, da soli o con partner europei, ad investire in ricerca e sviluppo, dalle microtecnologie alle realizzazioni spaziali e, quando ci scontriamo con vincoli europei sbagliati, testardamente trattare e ancora trattare, cercare maggioranze concordi e alla fine ottenere il risultato con l’Europa e non contro. Il piccolo Piemonte sapeva muoversi nell’Europa delle grandi nazioni, meglio di quanto abbiamo saputo fare negli ultimi quarant’anni, anche se membri fondatori dell’Unione europea. L’abbassamento delle tasse, insieme a una loro drastica semplificazione, è indubbiamente un’assoluta esigenza per dare ossigeno al nostro mercato e trasformare abbastanza rapidamente le piccole rendite assistenziali in reali e buoni posti di lavoro, ma con questo debito pubblico non possiamo fare troppo rapide fughe in avanti, però intanto con un vero condono fiscale, drastico e tombale, possiamo rottamare milioni e milioni di cartelle praticamente inesigibili, non solo perché così qualcosa di significativo si recupererebbe realmente, ma soprattutto perché centinaia di migliaia di piccoli imprenditori, tolta la paura di potersi veder confiscare dei beni, si getterebbero con ben rinnovato vigore a far crescere le loro aziende, rischiando ed investendo come negli anni del miracolo economico. E questo ancor di più se venisse poi, una volta per tutte, finalmente ridotta quella giungla di adempimenti e controlli che fa sentire ogni industriale o commerciante una sorta di criminale in libertà vigilata e che alla fine, per i tempi lunghissimi che determina, stanca e deprime anche i più tenaci. E anche il “nero” scomparirebbe in gran parte, perché a nessuno piace di sentirsi insicuro se non ci si vede praticamente costretto. In materia di pensioni il sistema contributivo permette di rendere più libera la data della pensione, ma non si capisce perché un pensionato, se bravo, non debba più lavorare o avere incarichi pubblici. Il restauro dei pieni diritti della difesa, la terzietà del giudice, la separazione delle carriere, la fine degli abusi della carcerazione preventiva, la fine del correntismo politicizzato, l’eccesso delle intercettazioni, le depenalizzazioni minori, la rapidità dei processi, il ripristino dell’immunità parlamentare per tutelare il potere legislativo, sono poi tutte riforme per restaurare uno stato di diritto che il cittadino onesto deve vedere come tutela e non come potenziale minaccia.

Sul piano delle ormai necessarie riforme costituzionali, il presidenzialismo appare più facilmente realizzabile mediante l’elezione diretta del primo ministro, lasciando al presidente della repubblica i ruoli di garanzia, ma va completata da una riforma del parlamento in cui, tranne che la fiducia, la legge di bilancio e quelle fondamentali, si stabilisca che basta l’approvazione in una sola camera salvo che l’altra non chieda a maggioranza di esprimersi anch’essa. Una Unione europea alleata con gli Usa nella Nato, democratica e partecipata, che, con una reale indipendenza, economica, politica e militare, tuteli le nostre nazioni verso il mondo e non sopprima i valori patriottici dei suoi storici popoli, dove ogni europeo si senta di pari dignità e peso nel determinare le decisioni federali, ma dove ogni caratteristica locale venga possibilmente mantenuta dal principio di sussidiarietà, è uno storico obbiettivo e una reale necessità proprio per restare Italiani.

Il Patriottismo poi, per tutta la coalizione di centrodestra è stato, è, e sempre deve restare, un valore fondante, nella memoria di quelle energie che l’Italia seppe sprigionare per sé e per il mondo col Rinascimento e del riscatto segnato dal Risorgimento Nazionale, con la ritrovata unità che si concretizzò nel Regno D’Italia, il 17 marzo del 1861. Un Risorgimento che fu anche sociale ed economico e che voglio ricordare con le parole del suo artefice primo. Camillo Benso conte di Cavour nel 1846 scriveva: “La storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado di intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato : in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose, che occupano le posizioni più umili della sfera sociale, hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità”.

Giorgia, i simboli, per risvegliare gli animi e mobilitare l’impegno, contano moltissimo e tu lo sai meglio di chiunque altro e per farlo servono nomi, occasioni, date che siano per loro natura unificanti, perché vivono in un ricordo condiviso. Fai tornare, ti prego, festa Nazionale a pieno titolo il 4 Novembre.

Aggiornato il 27 ottobre 2022 alle ore 09:21