Lettera aperta a Meloni, Salvini e Tajani

Sono tante le virtù necessarie in politica, dal personale carattere alla formazione culturale, ma due sono quelle fondamentali: la visione e il realismo. La visione è quell’insieme di ideali, principi e previsioni che ci indica la meta e la rotta per raggiungerla, il realismo la capacità di apprezzare le opportunità e difficoltà del momento. Ed è solo assieme che funzionano, che diventano Politica. Oggi viviamo in un mondo squassato da crisi – militari, energetiche, civili ed etiche – che ingenerano paura, perché presentano caratteristiche mai viste prima, a causa di un aumento diseguale ed esplosivo della popolazione e di uno sconvolgente progresso tecnico, talmente veloci da aver determinato la convivenza di società post-moderne e medioevali senza averci dato il tempo di rifletterci adeguatamente sopra.

I nervi pericolosamente scoperti di un mondo armato come non mai (per la prima volta nella storia in grado di autodistruggersi quasi completamente) e che teme di essere alla vigilia di un impoverimento per i limiti allo sviluppo, le diffusa inadeguatezza di classi dirigenti superate dagli avvenimenti adagiate (per reazione che sa di resa) nella sola cura della propria immagine, le convenzioni internazionali, le politiche dei blocchi, le influenze esterne, limitano oggi drammaticamente la libertà di movimento di un Governo italiano. Di qualunque Governo. E allora la destra italiana, che ha il vantaggio di essere meno usurata della sinistra nella pratica del potere, può e deve darsi solo un programma semplice e definito, ma quello realizzarlo. In politica estera non è molto ciò che si può fare. La nostra condizione di Paese di grande storia, ma piccolo, poco armato e privo di materie prime, non ci permette di giocare da soli un grande ruolo, ma qualcosa sì può e dunque si deve fare. L’Italia deve ricordarsi del piccolo Piemonte e di come e perché nacque la sua Unità e procedere spedita all’edificazione dell’Europa, aprendo a tutte le realtà, dalla Spagna all’Ungheria, ma ricordando sempre che è poi con Francia e Germania che dobbiamo soprattutto collaborare, non solo perché sono i nostri principali partner, ma perché è solo sviluppando l’intuizione iniziale di Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schumann, che può continuare quella forza di attrazione centripeta senza la quale non c’è Europa indipendente.

Oggi è possibile, perché Francia e Germania si interrogano di nuovo sul futuro come noi. E l’esercito europeo e il seggio comune all’Onu non sono più un puro miraggio, dato che l’Unione è l’unico modo per restare davvero Italiani, Francesi o Tedeschi. Spero che quell’immagine di Emmanuel Macron, Olaf Scholz e Mario Draghi, insieme sul treno, sia un incoraggiamento per il futuro. L’evoluzione della Nato, oggi come ieri, è molto più legata alle scelte americane che alle nostre. Intanto, il modo di intenderla di Joe Biden non è quello di Donald Trump e moltissimo poi dipenderà dalla scelta strategica di decidere se davvero la Russia sia tornata a essere il principale avversario e non la Cina (dieci volte più popolata e forte). Comunque noi dobbiamo continuare ad essere solidamente atlantici, ma senza nessun pericoloso e velleitario zelo bellicista.

È in politica interna allora, e soprattutto in economia, che si giocherà dunque il futuro del Governo. E qui davvero il centrodestra deve utilizzare tutte, ma proprio tutte le carte permesse dai trattati. Quale fu la causa prima del “miracolo economico” italiano degli anni Cinquanta, dopo le distruzioni di una guerra mondiale, lo scontro ideologico armato, i nuovi problemi appena emersi (Hiroshima e Nagasaki), la desertificazione del nostro apparato industriale, la povertà diffusa? La fortunata assenza di troppe regole. Gli italiani si misero al lavoro senza quasi dover domandare niente a nessuno, ricostruirono le loro case, aprirono bar, tabaccherie, cooperative, imprese artigianali, piccoli commerci, fecero enormi debiti e riaprirono le grandi fabbriche, operai e dirigenti fecero doppi e tripli turni, dirigenti e operai –magari detestandosi – riconoscevano nella fabbrica la loro ragione di vita e la difendevano. Nella mia città, Reggio Emilia, la crisi irreversibile di riconversione delle “Reggiane”, officine meccaniche bombardate che erano arrivate ad avere decine di migliaia di maestranze al colmo della produzione bellica, mise sul lastrico un enorme numero di operai. Ma erano operai super-specializzati che, per sopravvivere, si misero ad aprire botteghe che, con il tempo, avrebbero dato vita ad una miriade di imprese determinando la nascita di un formidabile tessuto industriale di qualità diffuso in tutta la Pianura padana. Adesso, però, ben pochi di loro sarebbero riusciti a sopravvivere il tempo necessario per completare l’enormità degli adempimenti per licenze commerciali e edilizie e ancora meno per accumulare capitale e crescere con gli oneri fiscali a cui siamo sottoposti. Allora, invece, tutto il Paese, favorito dalla bassa tassazione, da leggi favorevoli all’accumulo, dalla voglia di fare senza aspettare che altri facessero per noi, si risvegliò. E l’Italia liberale e cattolica, occidentale ed europea, crebbe. Le biciclette diventarono Lambrette e poi utilitarie, nelle case entrarono frigoriferi e televisori, i piccoli proprietari crebbero a milioni, si diffuse l’azionariato, i manovali diventarono tecnici e i contadini – per la prima volta – cominciarono davvero a diventare proprietari dei fondi che lavoravano. La rete autostradale iniziò ad unire la Penisola, le grandi aziende – pubbliche e private – presero a operare con sicurezza nel mercato mondiale, dalla Fiat di Vittorio Valletta alla Montecatini.

L’energia idroelettrica, la nascente industria nucleare, l’opera gigantesca di quel grande e spregiudicato Patriota che fu Enrico Mattei, ci fecero sognare per un attimo la prima vera autosufficienza energetica della storia italiana e la Lira meritava l’Oscar della valuta più forte. Iniziammo, con i trattati di Roma, la vera costruzione dell’Europa. Riedificammo l’esercito, la marina e l’aviazione e il 4 novembre era piena festa nazionale. In un solo decennio, però, perdemmo molto, moltissimo di tutto ciò. E qui non c’entrano né l’Europa né la Nato, ma il dogmatismo suicida della sinistra italiana. Cominciò quando Riccardo Lombardi, per giustificare il distacco dei socialisti dai comunisti e la conseguente rottura del Patto di unità d’azione, disse che il centrosinistra era una necessaria sbarra gettata negli ingranaggi dello sviluppo di un capitalismo che, altrimenti, avrebbe risolto da solo i problemi economici e sociali.  Era la piena confessione di un reo. E fu, purtroppo per noi, davvero così.  La nazionalizzazione dell’industria elettrica, il crollo della borsa, la fuga di capitali, la rottura di ogni solidarietà tra salariati e dirigenti, la demonizzazione e il crollo del prestigio sociale degli imprenditori, ruppero il meccanismo dell’economia di mercato. E continuò ad andare poi sempre peggio. L’attacco sistematico alla proprietà privata, il proliferare di sempre nuove macchinose e arbitrarie leggi vincolistiche, nazionali e locali, fino al tentativo di sostituire alla proprietà un semplice diritto di superficie, il cambio dello sviluppo economico con un assistenzialismo inefficiente basato su una tassazione che asfissiava sempre più il mercato produttivo, fecero il resto, ma non era finita. L’intima convinzione, sia dei comunisti che dei catto-comunisti, che l’uomo sia in fondo cattivo o almeno peccatore, li spinse a volerlo redimere e disciplinare a tutti i costi con le leggi. E cominciò la stagione demenziale dei rigidi e minuziosi controlli, la lista degli adempimenti burocratici salì a dismisura, dai “lacci e lacciuoli” di Einaudiana memoria si arrivò fino a prefigurare un sistema da socialismo reale che, anche senza bisogno di una pandemia, disegnava uno Atato in cui “tutto sia vietato tranne ciò che è obbligatorio”. È questo che in Italia ha mortificato la libera iniziativa, motore primo di ogni reale sviluppo.

La botta finale l’ha data poi la “disgrazia verde”. Legioni di incompetenti urlatori, improvvisatisi Savonarola, hanno deciso di salvare il mondo ma per carità, senza faticare, senza studiare i problemi, senza controllare un numero, frequentare un laboratorio, un po’ come quegli imbrattatori che, senza conoscere la prospettiva, la tecnica del colore, il modo di esprimere compiutamente un sentimento, secondo la lezione Crociana, sporcano una tela e poi la spacciano per arte “astratta” che solo gli happy few, colti e intelligenti (e cointeressati), sanno apprezzare.  E allora niente gas, niente petrolio, niente carbone, niente dighe, niente nucleare e anche poche cosiddette rinnovabili per l’enorme consumo di manufatti e territorio che comportano. E comunque, prima di ogni impianto, ascoltare il parere vincolante di tutti i pastori e portieri di condominio del territorio.

Il centrodestra, se vuole davvero provare ad interrompere il declino italiano, deve smettere di farsi condizionare da una sinistra che, dalla tragedia alla farsa, dalla Rivoluzione d’ottobre a Greta Thunberg e al Ddl Zan, le sbaglia tutte da un secolo. Deve anzitutto, almeno per cinque anni ridurre al minimo i controlli, le autorizzazioni, gli adempimenti. Deve ricostruire le infrastrutture a cominciare da una decina di medie centrali nucleari di ultima generazione, ridurre la tassazione e liquidare con un decreto fiscale tombale (e al 10 per cento del dovuto) tutto l’enorme contenzioso pregresso. Lasciare più libertà ai lavoratori di decidere l’età dei pensionamenti contributivi e permettere anche ai pensionati di lavorare ed avere incarichi, cominciare a liquidare il mastodontico stato A-sociale che droga e schiaccia i cittadini. Lavorare, insomma, con la gente e non contro la gente.

Il danno che la sinistra mondiale in un secolo ha fatto è enorme. Ha rappresentato il peggior ostacolo al progresso non solo scientifico, ma morale e sociale, tradendo completamente le speranze di un socialismo che potesse essere anche democratico, così che oggi non possiamo più essere solo conservatori, perché non ci hanno lasciato molto da conservare, ma abbiamo bisogno di una vera Rivoluzione Liberale, che apra di nuovo le prospettive di un futuro di crescita ad un’ umanità consapevole, che apra i cuori alla speranza e magari, un domani che è già oggi, alla conquista del sistema solare come spazio di libertà per i nostri figli.

È nelle nostre accademie, nei nostri chiostri, nei nostri monasteri, nelle nostre cento città che era presente quell’humus da cui nacque quel Rinascimento che cambiò il mondo. Ed per questo che io resto fondamentalmente ottimista sul futuro della nostra Nazione. Non si può fare tutto in un giorno, ma intanto bisogna subito invertire la rotta e lo dico perché, in campo o in panchina, sono da sempre convintamente per il centrodestra. E oggi, anche con tutti i limiti imposti dalla situazione e dagli assetti internazionali, qualcosa si può e si deve fare subito, qualcosa in fondo semplice e classico: “Laissez faire, laissez passer”.

Aggiornato il 22 ottobre 2022 alle ore 11:14