Amministrative: la banalità del bicchiere mezzo pieno

Il verdetto delle urne c’è stato. Ma non è di agevole decodificazione, né a sinistra né a destra. Proviamo a capire. Partiamo dal centrodestra. Asserire che uniti si vince mentre divisi si perde, è una verità. Ma non basta. Bisogna domandarsi come, con quali programmi e risorse umane da mettere in campo? La lettura che, a caldo, ne hanno dato gli esponenti moderati della coalizione, ai quali si è aggiunta Forza Italia, è fuorviante. Essi dicono: vincono i candidati moderati che rassicurano l’opinione pubblica. Asserzione che prelude all’ennesimo errore strategico. In primo luogo, vi sono stati candidati della coalizione di estrazione conservatrice che hanno stravinto. Come Pierluigi Biondi, riconfermato al primo turno sindaco de L’Aquila. In secondo luogo, la classificazione concettuale della tipologia di “moderato” resta piuttosto scivolosa quando incrocia il vissuto quotidiano. Si prenda il caso del sindaco di Genova, Marco Bucci. Il suo profilo vincente si è caratterizzato non per la mitezza dello sguardo ma per il puntuto decisionismo della sua Amministrazione. Il decisionista è, per definizione, uno che non si impantana nelle mediazioni infinite, ma va dritto come un treno quando si tratta di scegliere cosa fare. Al riguardo, Bucci lo si può descrivere come moderato tout court? In terzo luogo, bisogna considerare il consenso che ogni componente della coalizione reca alla causa comune. Guardiamo Palermo. Lì vince al primo turno il centrodestra. Il candidato sindaco, Roberto Lagalla, di estrazione cattolico-popolare, ottiene il 47,6 per cento (98.448 voti). Tuttavia, la vittoria è stata determinata non soltanto dai voti dei centristi e di Forza Italia ma dal contributo decisivo di Fratelli d’Italia (13,7 per cento) e della lista “Prima l’Italia” d’ispirazione leghista (7,1%). Alla luce di questa combinazione, che si è ripetuta in molte altre città al voto, il rischio è che la frazione moderata ricaschi nell’errore capitale di ritenere i voti della destra funzionali alla vittoria ma non a essere protagonista nel governare il Paese.

Sarebbe salutare se, prima di mettere mano al cantiere per la ristrutturazione della coalizione che il prossimo anno sfiderà il centrosinistra, si analizzassero le criticità che permangono nel campo del centrodestra, a partire dalla crisi che sta attraversando la Lega. I “giornaloni”, che hanno rinunciato da tempo a darsi uno spessore intellettuale, all’unisono hanno intonato il de profundis a Matteo Salvini. Sarebbe lui il grande sconfitto di questa tornata elettorale. E, in effetti, lo sarebbe se ci limitassimo a un’osservazione di superficie. Le cose cambiano se cominciamo a chiederci quale Salvini sia stato sconfitto. Quello duro e puro, sovranista ed euroscettico che abbiamo conosciuto tra il 2014 e il 2019 o il Salvini del riflusso giorgettiano, moderato e governista, che ha preso piede dalla svolta del Papeete (estate 2019) per imporsi con l’avvento del Governo Draghi? Se stiamo ai numeri non trova appeal nell’elettorato la seconda versione, quella soft. La cartina di tornasole che lo dimostra è il risultato di Fratelli d’Italia, in crescita esponenziale nelle roccaforti leghiste del Nord. Cosa vuol dire? Che un’opinione pubblica protestataria, totalmente critica con le scelte del Governo Draghi, tradita dalla svolta “confindustriale” imposta principalmente da Giancarlo Giorgetti, è trasmigrata nel bacino di consenso di Giorgia Meloni, quando non nel serbatoio dell’astensionismo. Precedentemente, la Lega sovranista era divenuta punto di riferimento politico dell’elettorato operaio e dei lavoratori autonomi nonché del mondo della piccola e micro-imprenditorialità, pesantemente penalizzato dagli effetti negativi della globalizzazione.

La capacità di rappresentare interessi disomogenei, oltre gli steccati di classe, ha trasformato l’offerta programmatica della Lega in un progetto egemonico. Il “Capitano” ha raccolto – della porzione maggioritaria dello scontento popolare si è occupato il Movimento Cinque Stelle una parte di quella disperazione sociale che, se non opportunamente incanalata all’interno delle dinamiche democratiche, avrebbe provocato una voragine nella tenuta della coesione sociale. L’approdo al Governo di unità nazionale ha fatto mutare pelle alla Lega, troppo rapidamente e troppo radicalmente.

Un esempio paradigmatico. Salvini sovranista ha tuonato per anni sulla necessità di adottare regole stringenti per impedire la fuga all’estero delle imprese e il conseguente saccheggio industriale del nostro know-how. Giancarlo Giorgetti, dal momento dell’insediamento al ministero dello Sviluppo economico, ha fatto di tutto per impedire il varo di una normativa sanzionatoria in danno della libertà assoluta delle aziende di chiudere baracca e burattini e trasferirsi altrove, per produrre alle condizioni di mercato più favorevoli. Il cedimento della Lega non è stato semplicemente programmatico, ma valoriale e identitario. Ragione per la quale è giusto chiedersi: quale Salvini ci sarà nei prossimi passaggi? Tornerà il tribuno che parla al “popolo degli abissi” oppure resisterà il Salvini agghindato per il pranzo di gala del liberismo economico risorgente, manovrato dalla mano draghiana presente in Lega?

Il quadro politico uscito dalla tornata delle Amministrative non è replicabile nel futuro prossimo. La “variante autunnale” potrebbe deteriorare lo scenario. Molto dipenderà dall’evoluzione della crisi economica. Il confermarsi in autunno della stagflazione, che quasi tutti gli economisti, compresi quelli della Banca d’Italia e del ministero dell’Economia, cominciano a ipotizzare, potrebbe ampliare sensibilmente l’area della povertà assoluta nel nostro Paese. Benché le forze espressione dell’establishment tendano a sottovalutare il dato, è dalla crisi finanziaria globale del 2008 che in Italia si è consolidato un universo protestatario che coinvolge un italiano su tre. A spanne, in sede elettorale, quell’area, estremamente mobile, vale il 30 per cento dei consensi. Negli anni ha trasmigrato in cerca di una rappresentanza che le desse voce. Dal 2013 al 2019 ha dato forza ai due partiti, la Lega e il Movimento Cinque Stelle, che si proclamavano anti-sistema, seppure con differenti accenti. Nel momento in cui entrambe le forze si sono riposizionate strategicamente, tradendo le promesse elettorali, quell’area d’insoddisfazione sociale li ha abbandonati. Nel caso dei Cinque Stelle, rifluendo nell’astensionismo; nel caso della Lega, in parte spostandosi su Fratelli d’Italia e in altra parte optando per l’astensione.

Secondo il ministero dell’Interno, negli 88 Comuni monitorati (escluse Sicilia, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta), l’affluenza alle urne è stata del 54,79 per cento, contro il 60,12 per cento della volta precedente. E, soprattutto, contro il 72,94 per cento alla Camera delle Politiche del 2018, che consacrarono il Movimento Cinque Stelle primo partito con il 32,68 per cento. Parliamo di oltre 10 milioni di voti ai quali si aggiungono i 5 milioni e 600mila circa conseguiti dalla Lega.

Chi parlerà agli scontenti nei prossimi mesi? Quali saranno le parole d’ordine per convincerli a tornare alle urne? Posto che la sinistra con il Partito Democratico ha fatto da tempo una scelta di campo in favore delle élite europee e dei cosiddetti poteri forti, il centrodestra, nel suo complesso, è intenzionato a farsi carico della protesta sociale? Se lo è non può continuare a dire, come fanno le sue ramificazioni centriste, che la soluzione sta nel rinnovare la fiducia a Mario Draghi anche dopo il passaggio elettorale del 2023, in comunione di spirito e di opere con le mosche cocchiere della sinistra: Matteo Renzi e Carlo Calenda. Il gossip politico di queste ore si sta focalizzando sulla conquista della leadership del centrodestra: toccherà a Giorgia Meloni o Matteo Salvini e Silvio Berlusconi proveranno a fare lo sgambetto alla lanciatissima competitrice? Siamo al panem et circenses della Roma imperiale. Una modalità, aggiornata ai tempi, per distogliere l’attenzione della gente dalla sostanza dei problemi. Non conterà chi guiderà le danze ma cosa farà il centrodestra. E soprattutto, per chi si spenderà. Non c’è da cullarsi sugli allori. La legislatura potrebbe non giungere alla scadenza naturale.

Tanto Matteo Salvini quanto Giuseppe Conte hanno compreso che il sostegno piatto a Mario Draghi sta dilapidando quel che resta del loro capitale elettorale. D’altro canto, fingere di contestare il Governo, come hanno provato a fare finora i “contiani” e un “confuso” Salvini, per poi votarne tutti i provvedimenti, è un tatticismo che non paga. Al contrario, accentua il disgusto degli italiani per l’incoerenza e l’inaffidabilità del ceto politico. Non è da escludere che entrambi i partiti si chiamino fuori dalla maggioranza per non doversi fare carico del dividendo negativo di un’esperienza governativa deludente. Se così fosse, al centrodestra non resterebbe molto tempo per guardarsi dentro e decidere cosa essere da grande. Lo facciano prima che sia troppo tardi. Il resto è teatrino che non mancherà a nessuno.

Aggiornato il 18 giugno 2022 alle ore 10:15