Antonio Martino se ne è andato, e il liberalismo?

È mancato ai cosiddetti vivi Antonio Martino. Dico “cosiddetti” perché molti si sono già addormentati anche se mangiano, bevono e vestono panni (se pure svegli lo siano mai stati). Lo conobbi quando ero ancora studente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Roma “la Sapienza”, e lui, ma come docente, andava a quella di Scienze Politiche, pur se economista, alla quale si può accadere da Giurisprudenza. Sapeva che ero della Gioventù liberale, quasi sempre in facoltà, e vedeva di uscire di lì a tarda mattinata per vedere di leggere il giornale: “Bisogna sempre massimizzare le risorse spese, e Lei, a quest’ora, lo ha già letto”. Poi feci la pratica forense e i primi anni d’esercizio della professione con l’avvocato Nicola Catalano, il quale fu all’alta autorità della Ceca, esperto della delegazione giuridica per i Trattati di Roma istitutivi della Cee e dell’Euratom, e giudice alla Corte di Giustizia delle Comunità europee per volere di Gaetano Martino, il padre di Antonio, amico della famiglia.

La frequentazione si strinse. La consuetudine è quasi scemata nel periodo del mio maggiore impegno professionale e della sua più intensa vita politica e partecipazione al governo. Ha di nuovo fatto incontrare le due vie Arturo Diaconale. Nell’occasione, tra l’altro, di un convegno organizzato per questa testata sul Gran Sasso. Allora Antonio Martino mi chiese se potevamo passare, data la vecchia conoscenza, al “tu”; cosa eccezionale per la freddezza connaturata. Malgrado sia un “giurista” e non un economista mi propose, anche, di iscrivermi alla Mont Pelerin Society, la nota associazione internazionale del liberalismo classico; ma per me la cosa era all’epoca troppo impegnativa, e lasciai cadere l’idea. Adesso Antonio Martino è morto, Arturo Diaconale è morto, e io mi sento poco bene, colpito da un ictus, dal quale cerco di riprendermi, ma con molta fatica.

Il liberalismo, però, sta meglio? È sotto attacco non solo da parte di Vladimir Vladimirovič Putin, il presidente della Federazione russa, il quale ha definito sempre la sua una “democrazia illiberale” e antiliberale, ma, a mio parere, da parte di gente come George Soros, che, dopo aver conquistato la sua posizione non col produrre beni o servizi ma con speculazioni finanziarie a danno di capitali privati e pubblici, usa per una sua fondazione la denominazione di “società aperta”, coniata da Karl Popper, per fornire d’un ideologia il dominio a non più del due per cento della popolazione mondiale, a stima del compianto, anche lui, Ralf Dahrendorf, già presidente dell’Internazionale liberale. Il mercato dovrebbe essere un luogo, nello stesso tempo ideale e reale, regolato in modo da favorire gli scambi, non per consolidare il potere di plutocrazie od oligarchie. Io resto liberale, dubbioso, sempre più conservatore.

Aggiornato il 07 marzo 2022 alle ore 10:15