Una settimana di pagliacciate per lasciare tutto com’è

La fine del “romanzo Quirinale” è stata una delle più brutte che si poteva immaginare. La politica italiana nel suo insieme, già dovutasi consegnare, con le alette piuttosto basse, a Mario Draghi, perché incapace di costruire un’alternanza netta fra una maggioranza e una minoranza riconoscibili, si cosparge il capo di cenere e chiede a Sergio Mattarella di rimanere altri sette anni al Colle. Semplicemente perché non riesce a individuare un possibile sostituto del Capo dello Stato uscente. Mai come ora l’Italia è stata ostaggio di un dilettantismo così impressionante e palese ma anche le figure, diciamo così, più autorevoli non escono immacolate dalla pessima pagina politica della settimana scorsa.

Il rieletto Mattarella aveva ribadito in tutte le salse la propria indisponibilità per un secondo mandato, ma rieccolo, un po’ come Amintore Fanfani, ad affrontare il bis in maniera impassibile, quasi a dimostrare che sapesse già in realtà come sarebbe andata a finire e che la sua voglia di pensione fosse solo di facciata. Mario Draghi sperava davvero di assurgere al Colle più alto della Repubblica, ma gli toccherà sorbirsi tutte le grane che la permanenza a Palazzo Chigi comporta.

Dicevamo, la politica nel suo insieme ha comunque fallito in modo miserrimo. Ci hanno tenuto impegnati per una settimana, i sette giorni più strampalati della Repubblica italiana, con votazioni inutili e lanci compulsivi e isterici di tante candidature, per fare cosa? Per lasciare, in buona sostanza, tutto immutato, con Mattarella al Quirinale e Draghi a capo del Governo di unità nazionale. Un capolavoro, non c’è che dire. Diversi commentatori dicono che non sia più tutto come prima, che il Governo sia destinato ad andare incontro a diverse fibrillazioni. Altri ritengono che, al contrario, la premiership di Mario Draghi diverrà ancora più forte, visto l’ulteriore indebolimento del quadro partitico e potrà concedersi atteggiamenti sempre più dispotici. Possono essere fondate sia l’una che l’altra previsione, ma intanto è acclarato come un’intera settimana di tragicomiche manfrine abbia prodotto il nulla.

Certo, da sabato scorso il centrodestra è deflagrato, e ne parliamo fra poco, e il Movimento Cinque Stelle sembra costretto a subire un duello fra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, ma a livello istituzionale, come è evidente, non è cambiato un bel niente, nonostante i voli pindarici della classe dirigente italiana o sedicente tale. Naturalmente, c’è chi è più colpevole di altri: analizziamo quindi le gesta dei maggiori responsabili di questo patatrac politico.

Il Partito Democratico e il M5S hanno mestato nel torbido sin da subito, utilizzando il loro strumento migliore e “storico”, ossia una faccia tosta da guinness. Sono partiti con il richiedere un candidato di unità nazionale, secondo loro, non divisivo, quando poi proprio la sinistra è sempre stata maestra nel forzare la mano, nelle varie battaglie per il Quirinale, con personalità ultra-partigiane e spesso votate, quando si è potuto, solo dalle truppe parlamentari mancine. Quindi “no” ovviamente a Silvio Berlusconi, ma “no” anche a qualsiasi altro nome se proposto dal centrodestra. Via via si è capito che Pd e Cinque Stelle non avrebbero appoggiato alcuna delle ipotesi avanzate da Matteo Salvini, quand’anche questi avesse perorato la causa di uno di loro come Luciano Violante, tanto per fare un esempio di un esponente storico e autorevole della sinistra. Forse, sbarrando la strada al leader leghista e non facendo per giunta dei nomi alternativi, piddini e servi sciocchi pentastellati hanno mirato sin dall’inizio al bis di Mattarella. Hanno lavorato affinché si giungesse a questo desolante epilogo.

L’esultanza e il “dammi il cinque” di Enrico Letta e dei suoi colleghi parlamentari del Pd sono stati abbastanza eloquenti. Non è neppure da escludere che anche il centro del centrodestra, Forza Italia e Coraggio Italia di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro abbia inseguito costantemente, pur non ammettendolo durante i primi passi, la rielezione di Sergio Mattarella. Si pensava che i giovani Salvini e Giorgia Meloni snobbassero o scaricassero il vecchio Silvio ma chissà, forse è quest’ultimo che ha gabbato i primi due con lo specchietto per le allodole di una candidatura poi ritirata. Ormai, non ci sorprendiamo più di nulla.

Una cosa è certa, purtroppo: non è rimasto niente, in Forza Italia e, figurarsi, nei neocentristi di Toti, di quella Rivoluzione Liberale a cui abbiamo creduto in tanti. Forza Italia e cespugli di centro sono completamente organici oggigiorno a un certo establishment europeo e italiano, quindi possono gradire senza sforzi un’Italia incatenata allo status quo rappresentato dalla coppia Mattarella-Draghi.

Matteo Salvini, nel ruolo di kingmaker, si è rivelato maldestro, più che di destra e pasticcione. Diciamolo pure senza troppe remore, e segnaliamo inoltre la sconcertante ingenuità di un leader che pure è stato capace di portare il proprio partito dal 4 per cento ai primi posti della classifica. I suoi alleati di Governo, sia quelli più vicini alla Lega che quelli più lontani, a quanto sembra, hanno giocato sporco, ma Salvini doveva aspettarselo e premunirsi in qualche modo. Invece, è cascato in tutte le trappole disseminate sul cammino, e alla fine, anziché prestare ascolto all’unica alleata forse un poco più sincera degli altri compagni di viaggio, Giorgia Meloni, (che avrebbe voluto insistere ancora con un candidato di centrodestra, per il quale sarebbero mancati solo 55 voti), ha deciso di consegnarsi mestamente ai propri carnefici.

Che nessuno si scandalizzi ora se da parte di Fratelli d’Italia vi sarà il tentativo, del tutto legittimo, di giocare una partita in autonomia e di allargare sempre più il perimetro del partito, accogliendo anzitutto i delusi, di base e di vertice del centrodestra di Governo, puntando a un partito conservatore capace di andare oltre alla destra tradizionale figlia di Alleanza Nazionale. Qualche segnale in questo senso lo si è già visto dalle preferenze raccolte in Parlamento da Carlo Nordio, superiori ai numeri di cui dispone Fratelli d’Italia alle Camere.

Salvini stava già rischiando da mesi di consegnare fette di consenso alla Meloni, vista la sterile partecipazione leghista all'esecutivo di Mario Draghi che, per esempio, non è servita nemmeno a stemperare anche solo in parte il rigore illiberale anti-Covid. Dopo la brutta vicenda del Quirinale, gli interrogativi sul futuro del partito di Alberto da Giussano saranno ancor più numerosi. Determinate doti o ci sono o non ci sono. Ricordiamo, in conclusione, l’esempio di Marco Pannella, che riuscì tanti anni fa, con una rappresentanza parlamentare assai più esigua di quella leghista, a imporre e a far eleggere come Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Con il senno del poi, non fu una scelta felicissima, ma questo è un altro discorso.

Aggiornato il 01 febbraio 2022 alle ore 09:32