Cultura della cancellazione

Siamo debitori a Paolo Mieli della brillante recensione del libro di Germano Maifreda sulle Immagini contese, una Storia politica delle figure dal Rinascimento alla cancel culture (Corriere della Sera, 18 gennaio 2022), libro che Mieli definisce “straordinario”. E si capisce bene che lo è. Tuttavia il fenomeno della “cultura della cancellazione”, a causa specialmente della piega che ha preso negli ultimi tempi, fino ad esiti più ridicoli che tragici, non è di quelli per i quali l’opera degli storici, pur autorevoli come Maifreda e Mieli, può fermarsi alle vicende di monumenti e quadri significativi. In “Monumenti sotto tiro”, il titolo appropriato alla recensione, viene spiegato che “le immagini pubbliche non sono neutre: è inevitabile che vengano contestate”.

Ecco uno dei punti non convincenti del libro. La contestazione andrebbe bene, se non sfociasse invece, spesso, in danneggiamento o addirittura distruzione. Porto gli ultimi esempi: la polverizzazione dei giganteschi Buddha di Bamiyan e la devastazione del sito archeologico di Palmira. Chi parlerebbe di contestazione? Se per contestazione intendiamo la riflessione critica sul perché e il percome di una statua o di un quadro, essa è sempre avvenuta. Appartiene alla storia che, intesa alla Croce, è sempre storia del presente perché lo storico guarda al passato con gli occhi di oggi. I posteri cambiano il giudizio degli antenati riflettendo l’attualità.

Scrive Maifreda che “la storia della creazione e quella della cancellazione sono necessariamente intersecate”. E Mieli conclude così: “Significa che ogni effigie destinata alla celebrazione pubblica di qualche personalità o evento storico è destinata, prima o poi, ad essere distrutta”. Può darsi che accada sempre o talvolta oppure che non accada mai. Tali accadimenti sono comunque il più incerto piedistallo della cancel culture. A parte la contraddizione insita nell’estremismo della “cultura della cancellazione”: infatti, tenere in piedi anziché abbattere il monumento contestato può servire la causa dei contestatori, in un certo senso. Il malanimo spinge gl’incolti ad espungere fisicamente dal panorama visivo gli emblemi che idealmente avversano.

La “cultura della cancellazione”, anche come espressione, è di per sé un ossimoro. Che essa non possegga nulla di culturale è dimostrato dal fatto (un fatto!) che, applicata ai libri, è inaccettabile e generalmente condannata, se non dai fanatici, dai dittatori, dai religiosi. Una statua o un quadro non sono che “libri” scritti in metallo e in marmo, con tele e colori, sull’ intonaco dei muri. Il processo distruttivo rivolto alle immagini del passato non è ‘comprensibile’ perché accade, ma accade perché ‘incompreso’. Ogni pretesa o pretesto di ‘comprensione’ diventa giustificazione infondata. L’iconoclastia è l’esantema dell’intolleranza, come il rogo dei libri. Sono operazioni ‘materiali’, che di ‘spirituale’ hanno soltanto l’odio degli operatori. Lo “straordinario libro” di Germano Maifreda, ed un pochino anche l’eccellente recensione di Paolo Mieli, hanno nondimeno un che di assolutorio del fenomeno. Mi correggo: un eccesso di distacco storico.

Aggiornato il 19 gennaio 2022 alle ore 10:23