Pd, per D’Alema quella di Renzi non è una malattia ma un contagio

Sono forse una specie di baruffe chiozzotte quelle che animano il Partito Democratico fra un ritorno alla base di Massimo D’Alema e le risposte piccate di non pochi pdiessini contro lo stesso D’Alema, che non ha potuto fare a meno di parlare del renzismo, termine di malattia che ha contagiato il Pd di allora, pur rimanendo ancora forte e viva nel corpo del sempre malato Matteo Renzi.

Apriti cielo! In ordine gerarchico la ruvida reazione di Enrico Letta non poteva non primeggiare, allontanando seccamente qualsiasi malattia dal corpaccione del Pd che, tra l’altro, “è orgoglioso di rappresentare” e, pur ignorando per forza maggiore l’attacco dalemiano diretto contro l’ex premier, si è capito che il rientro nella casa madre di D’Alema non è – e non poteva essere – un retour ricco di rose e fiori. Del resto, con un carattere del genere poteva il figliol prodigo riunificare la sinistra, prima ancora dello stesso Pd, come probabilmente era nei suoi più o meno grandiosi progetti?

Ma il colpo basso, una specie di pugnalata in cauda venenum, D’Alema non poteva non riservarla a Matteo Renzi, col quale peraltro i rapporti presenti, passati e futuri non sono mai all’acqua di rose. Appunto. Per farla breve ha dato, come si sa, del malato all’ex premier toscano non specificando bene il tipo di malanno ma, proprio in questa omissione, sta la voluta crudezza dell’accusa di contagio partitico.

Si diceva delle baruffe chiozzotte. In realtà c’è ben altro di una baruffa fra compagni, nel senso che proprio questa rissa parolaia dimostra per l’ennesima volta la crisi di un Pd del quale, giustamente, Matteo Renzi ha voluto mostrare a D’Alema i suoi (di Renzi, ovviamente) successi che, sebbene accompagnati da errori spesso caratteriali, hanno indicato una strada diversa per un Pd il quale, come temeva proprio il senatore di Scandicci, ha poi imboccato quella dell’alleanza col Movimento Cinque Stelle e con quanto il grillismo rappresenta.

Su questo lo scontro con i vertici del Pd è stato all’arma bianca e da qualche osservatore meno affrettato è stata avanzata la definizione “socialdemocratica” della svolta renziana, alla luce di una scissione che ricorda appunto quelle che furono le divisioni all’interno del fu Partito Socialista, a cominciare da quella fra Pietro Nenni e Giuseppe Saragat nel 1948 a proposito dei rapporti con l’allora Partito Comunista italiano.

Certamente i tempi cambiano e corrono, ma mutatis mutandis, il rapporto fra Pd e M5S che proprio Letta intende come alleanza strutturale, ovvero politica, evoca analogie fra socialdemocratici e comunisti d’antan con quel bagaglio di differenze profonde che una volta si richiamavano agli stretti rapporti col Pcus (l’Urss) e oggi con il Partito dei giudici, di cui i pentastellati sono gli orgogliosi e fattivi rappresentanti.

Ciò che manca a Renzi è il coraggio per un passo ulteriore, per rendere completa e irreversibile la sua scelta, guardando verso le forze centriste in un panorama italiano non semplice ma neppure chiuso e su cui le vicende future del premier Mario Draghi non potranno non avere peso e, soprattutto, opportunità politica.

Aggiornato il 05 gennaio 2022 alle ore 09:38