Una Lega per il futuro: la colonizzazione del sistema solare/3

Lo spazio necessità per la sicurezza. La terra denuclearizzata

Pur se fondamentali, queste ragioni non sono né le sole né le più minacciose per spingere verso una prospettiva di questo genere, ve ne sono di altrettanto importanti, politiche e militari, legate tra loro e a motivazioni di carattere psicologico, ragioni di natura tale da mettere in forse la sopravvivenza stessa dell’umanità.

Cominciamo dal piano militare. Quanto si è scritto sulla bomba atomica: saggi, articoli, trattati, autodifese, romanzi. Si è analizzato l’aspetto militare (l’equilibrio di potenza), quello economico (i limiti industriali di una potenza non nucleare), sociologico (il rischio di soffocamento delle libertà provocato dalla ragion di Stato nucleare), psicologico (l’equilibrio del terrore) fino a mettere tutti questi aspetti quasi sullo stesso piano di quello principale, che è invece un altro: dall’esplosione della prima bomba atomica, nel deserto di Alamogordo la mattina del 16 luglio 1945, il mondo è diventato troppo piccolo. Troppo piccolo per il sapere e il potere di una umanità in grado ormai di distruggerlo quasi di colpo. Contemporaneamente alla bomba, poi, le armi batteriologiche, chimiche, metereologiche, che si sospetta siano segretamente sempre studiate, si sono probabilmente sviluppate, almeno a livello di conoscenza, al punto di arrivare a un possibile grado di pericolosità quasi dello stesso ordine di grandezza, sommando così l’effetto della loro possibile esistenza a quello dell’esistenza della bomba atomica, nel rendere stretto il mondo.

Disponibilità stimata di bombe atomiche nel mondo

Mai prima, nella storia conosciuta dell’umanità, vi è stata la possibilità che l’esistenza stessa dell’uomo sul pianeta fosse minacciata da mezzi artificiali, la grandezza delle distanze e la povertà tecnologica delle armi resero ognuno dei conflitti, anche i più sanguinosi e imponenti, un fatto locale, sì che i loro effetti non furono mai così grandi da interessare tutta l’umanità e da lasciare ogni singolo uomo senza una possibilità reale di salvezza individuale, prescindendo dalla sua preveggenza, furberia o fortuna. È davvero come se un uomo vivesse con altri uomini l’intera sua vita dentro una polveriera e, conscio del pericolo, si sforzasse di migliorare costantemente i sistemi di allarme e di prevenzione, si preoccupasse di curare l’aspetto psicologico dei rapporti con gli altri per evitare risse pericolose in un ambiente come quello, cercasse di sistemare gli esplosivi nella maniera più razionale possibile e limitasse al minimo indispensabile i suoi movimenti. Così facendo, egli farebbe certo bene ma non sarebbe molto più razionale se dividesse gli esplosivi in più fabbricati, in modo da rendere impossibile l’esplosione di tutto contemporaneamente e, soprattutto, cercasse di limitare allo strettamente necessario la sua permanenza dentro la polveriera, vivendo normalmente fuori e lontano da questa?

Questa sola è la soluzione sicuramente razionale, l’unica in grado di assicurare con alta probabilità la sopravvivenza al complesso delle persone che lavorano nella polveriera e difatti è quella adottata. E oggi, il problema terribilmente attuale delle armi nucleari può trovare un’almeno parziale soluzione proprio in questo, nel mantenere il rapporto tra pericoli e loro concentrazione entro limiti “più sani” (uso questo aggettivo nel senso realistico del termine, non in quello auspicabile) quelli cioè in cui la probabilità di sopravvivere per la generalità non sia legata ad una serie di coincidenze fortunate, ma una a una “relativa impossibilità” di distruzione per tutti, grazie a una terra denuclearizzata. Perché le attività pericolose, anche non belliche, esistono, di tutti i tipi. Si tratti di produrre certi composti, reagenti o altro, si tratti di coltivare talune spore o batteri per studi medicinali o infine si cerchino volontariamente armi biologiche e chimiche: tali attività esistono e la loro presenza sul nostro pianeta è un rischio potenzialmente mortale e non solo perché siamo tanti e a contatto di gomito, ma anche e soprattutto perché la Terra è un isolato, unico e unito sistema.

Lasciando ad alcuni la speranza che non succeda mai niente (neanche in un futuro in cui tali attività saranno ancora più frequenti), ad altri quella che gli uomini rinuncino (tutti) a tali attività ( ammesso e non concesso che la cosa sia poi veramente possibile ) e infine ad altri ancora quella che il cielo resti il luogo privilegiato delle previsioni degli astrologi e dei sogni degli innamorati, è invece proprio su qualche astro minore e particolarmente ostile, che tali attività andrebbero possibilmente concentrate. Perché la speranza sarà l’ultima a morire, ma noi non vorremmo essere i primi. Solitamente tali attività (le più pericolose di esse) sono già, per la loro natura, abbastanza concentrate in impianti tenuti lontano e protetti da costosi sistemi di sicurezza, oppure vengono portate avanti con fasi, luoghi e procedimenti separati, per diminuirne la pericolosità, per cui non dovrebbe essere impossibile trasferirle nel tempo su altri pianeti o su stazioni orbitanti, visto che, per questioni di sicurezza, i procedimenti sono già comunque particolarmente costosi e in un certo modo tenuti separati dal resto del ciclo industriale.

Sarà ancor più costoso, ma, almeno per alcune di tali attività, assolutamente necessario. Tutte le bombe e i sistemi nucleari militari, trasportati al di fuori della terra, divieto di detenzione, produzione, stoccaggio di tali sistemi regolato da una convenzione che legittimi i controlli e fissi il principio di sanzioni collettive contro la nazione non ottemperante. Non è né impossibile, né inutile, né arbitrariamente discriminatorio. Non è impossibile. Per quanto strano sia (è uno degli aspetti sorprendenti della personalità umana) gli uomini combattono in quella cosa che distrugge vite e assetti civili chiamata guerra che, per sua natura, dovrebbe essere quindi la negazione totale dell’ordine e del rispetto umano, eppure si sono mostrati (e più volte) capaci di farlo rispettando (o quasi) delle regole codificate. L’esempio più famoso è probabilmente quello della Convenzione di Ginevra, e il fatto più significativo è senz’altro quello del mancato uso di gas tossici durante la Seconda guerra mondiale, perché non furono usati in larga misura da nessuno dei belligeranti, nemmeno dalla Germania (nonostante il suo sciagurato regime) neanche quando fu vicina al crollo ed alla devastazione totale e nonostante avesse, in grandi quantità, gli aggressivi più efficienti per distruzioni su vastissima scala (i gas nervini del tipo Tabun e Sarin) e i mezzi per renderli operativi (le V1 le V2 e i sottomarini).

Molti altri esempi si potrebbero fare, da Roma e Firenze dichiarate città aperte e salvate dalla totale distruzione (che risparmiò anche Parigi) al Trattato di Washington sulle relatività navali e la limitazione del tonnellaggio delle corazzate, fino all’etica cavalleresca di quei signori in uniforme che furono i piloti della Prima guerra mondiale. Si sono viste guerre tra stati circoscritte alle truppe coloniali oltremare, un intervento americano in Corea e Vietnam ristretto nel solo ambito del territorio conteso, la guerra tra Roma e Albalonga risolta (secondo la storia leggendaria) soltanto tra Orazi e Curiazi. Quello che invece, almeno finora, non si è mai visto, è l’assenza completa di conflitti, in questo nostro vecchio pianeta.

Anche tecnicamente non è impossibile. Gli imponenti apparati nucleari, che rassicurano e gratificano le grandi nazioni bellicose, siano sottomarini, bombardieri, mega missili o altro possono già (e ben maggiormente potranno) essere sostituiti da stazioni orbitanti, missili planetari, raggi laser e altro ancora, ed in una maniera sufficientemente lenta ed articolata da essere accettata. Si dovrebbe partire da una convenzione (in ambito Onu, ma con tempi e modi forzatamente dettati dal “direttorio” delle grandi potenze nucleari) articolata in due fasi, che stabilisse intanto il divieto di procedere alla progettazione, costruzione ed installazione di nuovi sistemi di armi nucleari terrestri. In un tempo stimabile in 25-30 anni, tali sistemi diverrebbero relativamente obsoleti, mentre le nazioni militarmente nucleari utilizzerebbero i quattrini (che purtroppo avrebbero in ogni caso speso in tale settore) per creare sistemi d’arma spaziali. Finalmente, quando le ambizioni militari delle grandi potenze e il progetto di denuclearizzazione terrestre non fossero più, grazie alle armi spaziali, in completa contraddizione, si potrà procedere alla fase due, che provochi la distruzione di tutti gli ordigni nucleari terrestri superstiti e abbia per scopo ultimo e sperato, la dichiarazione di principio della Terra “zona franca nucleare globale” in caso di conflitto. Sembra un libro dei sogni e, insieme, una mesta rinuncia all’esigenza più grande: una pace vera e piena. Non lo è, non lo è assolutamente e vediamo perché. Non è inutile.

Nel caso che si riuscisse veramente a dichiarare e a mantenere la Terra zona franca, esclusa da scontri nucleari, ciò è abbastanza evidente, ma anche nel caso ci si dovesse limitare alla dislocazione delle armi nucleari al di fuori dei confini terrestri, i vantaggi di una tale convenzione sarebbero enormi. Anzitutto per i tempi di reazione, perché si potrebbero fissare, ad esempio, i limiti minimi di stazionamento consentito ad almeno molte ore dalla terra, con il ché i tempi di reazione all’aggressione si allungherebbero significativamente (oggi, per i missili, sono di pochissimi minuti) facendo diminuire quell’enorme tensione da stato di allerta permanente, che è, di per sé, di un’estrema pericolosità. Inoltre, il lungo tragitto permetterebbe di distruggere molto più sicuramente l’eventuale missile sfuggito al controllo e infine renderebbe più costoso e addirittura proibitivo per i piccoli Paesi militaristi, (in generale meno razionalmente strutturati, meno “adulti” delle grandi potenze ) accedere ad un armamento nucleare e infine praticamente impossibile farlo segretamente. Insomma, più difficile una guerra per errore o paranoia. Il primo di agosto 1914, nel pieno della crisi provocata dall’attentato di Sarajevo seguito dall’ultimatum austriaco, l’ambasciatore di Germania a Londra, principe Lichnowsky, telegrafò al cancelliere tedesco che la Gran Bretagna sarebbe restata neutrale e che avrebbe cercato di garantire la neutralità della Francia, nel caso il Reich si fosse astenuto dall’attaccare in Occidente attraverso il Belgio. Il Kaiser cercò allora di salvare il salvabile per ottenere, se non la pace per la rotta di collisione tra la Russia e l’alleato austriaco, almeno la delimitazione della guerra al solo fronte orientale, urtandosi però al rifiuto, accompagnato da offerta di dimissioni, del comandante dell’esercito, maggior generale von Moltke, di fermare la concentrazione delle truppe.

Von Moltke, tabelle di mobilitazione alla mano, gli dimostrò che, qualora non si fosse provveduto entro al massimo tre giorni a dare il via alle operazioni di chiamata alle armi e concentrazione contro la Francia, non vi sarebbe più stato il tempo sufficiente a battere quest’ultima prima dell’intervento russo, come previsto dallo Schlieffen nel piano, lungamente studiato, che prevedeva di sfruttare la differente velocità di mobilitazione (calcolata in un mese e mezzo) tra i due alleati della coalizione avversaria. Tre giorni, tre giorni al massimo, per prevedere se la Francia sarebbe rimasta neutrale secondo il desiderio inglese, oppure avrebbe seguito l’alleato russo, tre giorni per indirizzare verso Oriente o verso Occidente il movimento dei treni militari, tre giorni passati i quali la Germania si sarebbe trovata o volontariamente in guerra anche con la Francia (e l’Inghilterra) o in balia di una sua eventuale decisione ostile (dato che, in quest’ultima ipotesi, la massa delle truppe tedesche sarebbe stata concentrata a Est). Si sa come andò a finire, la lealtà all’alleato austro-ungarico, la paura dell’intervento francese e la fedeltà ai “piani prestabiliti” fecero sì che il tre di agosto del 1914, le truppe tedesche entrassero in Lussemburgo, segnando la distruzione di una grande fase della civiltà europea.

Ma non è questo che qui ci preme ricordare, quanto piuttosto un fatto sconvolgente: il tempo che oggi è lasciato a ognuna delle grandi potenze per decidere se lasciare o no partire i missili, non è di tre giorni, ma è dai 5 ai 10 minuti. Cinque o dieci minuti, dallo stadio finale di allerta atomico paragonabile all'ultimatum del luglio 1914, per un alto comando (e se fino a ieri avremmo automaticamente pensato solo ai due grandi, svariate sono ormai le potenze con capacità strategica) per decidere, non solo se attaccare, ad esempio, gli Stati Uniti, ma anche tutti gli alleati degli Stati Uniti, cinque o dieci minuti per valutare se tali Paesi rifiuteranno (o potranno rifiutare) di appoggiare gli Usa. Cinque o dieci minuti per ogni potenza nucleare balistica per difendersi o attaccare, così che oggi i due termini hanno un significato che ormai si confonde completamente. Ancora nel Primo e nel Secondo conflitto mondiale Italia e Stati Uniti entrarono in guerra in fasi successive, a causa sì del meccanismo infernale, ma a seguito di decisioni autonome e di vedute particolari, oggi, in caso di scontro improvviso tra le potenze, le nazioni minori legate ad una alleanza e sedi di basi strategiche (come i missili francesi e britannici, oppure i radar di scoperta, le piste per bombardieri, i porti per sottomarini nucleari della Nato) si potrebbero trovare in guerra senza che, non solo i loro popoli, ma nemmeno i loro governi ne avessero conoscenza, poiché una potenza potrebbe non voler rischiare un attacco atomico da parte di un alleato del nemico, prendendo tempo per capire le sue reali intenzioni, dato che l’unico modo sicuro di impedirgli di offendere è di distruggere subito le sue infrastrutture e i suoi missili prima della partenza in volo.

Sarebbe l’equivalente, per i milioni di cittadini appartenenti a questi stati, della morte improvvisa per infarto collettivo. Un infarto nucleare. La limitazione allo spazio delle armi di distruzione di massa sarebbe insomma una notevolissima garanzia contro una guerra per errore o incidente o paura. E scusate se è poco. Vi è poi un altro aspetto, che riguarda l’operazione trasferimento in generale ed è quello altrettanto importante, legato al concetto che si vuole avere dell’uomo e anche a quello già esposto di cultura nucleare. I cultori dell’assurdo amano credere (o far mostra di credere) che la sicurezza dell’uomo sia garantita dall’equilibrio del terrore che, a parte il fatto che assomiglia all’ipotesi di dare a tutti i passanti un coltello per evitare che, sapendosi armati, litighino, significa in pratica credere che le guerre scoppino per motivi razionali, anche se abbietti e che si possa evitare la “grande guerra” sfruttando, in maniera opportuna, quel sentimento irrazionale che è la paura.

Per costoro ogni tentativo di rendere meno inevitabile la distruzione totale in caso di guerra, attraverso sistemi d’arma difensivi come laser o missili antimissili (che sarebbero probabilmente risolutivi contro bombe provenienti dallo spazio) costruzione di rifugi o attraverso il confinamento lontano degli scontri è sbagliato, perché rende “razionalmente” concepibile e attuabile una guerra. Questo modo di pensare è forse il più pericoloso che si sia visto nella storia dell’umanità perché, partendo dalla misconoscenza dell’anima umana, accompagnata inoltre da disistima, può portare, dritto, dritto, alla catastrofe. Le grandi guerre catastrofiche da Alessandro Magno e Attila fino ai due ultimi conflitti mondiali, passando per la Guerra dei Trent’anni e il confronto Cristianesimo-Islam, non sono state mai solo guerre economiche, ma anche (e probabilmente soprattutto) guerre psicologiche, in cui l’interesse è stato, almeno in parte, una scusa per dare una sia pur abbietta copertura “razionalistica” a pulsioni emotive (le più incontrollate, perché irrazionali) o, perfino peggio, di natura para-religiosa, con annessa demonizzazione del nemico.

I cultori dell’assurdo forse immaginano, ancora oggi, le superpotenze come pronte a scatenare la guerra non appena avessero una minima possibilità di assestare un colpo distruttore, con una probabilità realistica di sopravvivenza per le loro popolazioni (donde la loro opposizione, dissennata, alla costruzione per esempio di rifugi, perché, alzando la possibilità di sopravvivenza, renderebbero più razionalmente concepibile una guerra) ma non è affatto così. La guerra totale oggi, se scoppierà, scoppierà solo per errore o per follia. Possibilità di errore e occasioni di follia, che sono fortemente aumentate dalla nuova situazione di moltiplicazione degli “equilibri del terrore”, tra superpotenze, potenze e potenzine, coi loro tempi di reazione praticamente azzerati e con il buio totale come prospettiva e come spada di Damocle. In questa ottica, che temo crudamente realistica, anche se per alcuni difficile anche solo da immaginare, ogni ritardo nell’espansione nel sistema solare è quindi pericoloso, ogni soldo tolto ai voli spaziali è contro la pace.

La conquista del sistema solare. Andate all’Ovest

Andate all’Ovest! Il grande movimento simboleggiato da questa frase è diventato epopea, ha rappresentato forse l’ultima delle terre promesse su questa terra, ma probabilmente invece solo l’ennesima della nostra storia. Crescete e moltiplicatevi. L’abbiamo fatto ed ora altre motivazioni economiche, altri problemi sociali, altre necessità di sopravvivenza e l’eterno spirito di avventura ci spingono di nuovo verso la Frontiera. Non possiamo farne a meno e forse non vogliamo farne a meno. Abbiamo sempre fatto così. Riprendiamo allora in esame i punti precedenti e vediamo perché (e subito dopo come) organizzare i carri dei pionieri. Ricapitoliamo. Siamo tanti, oltre 7 miliardi, saremo probabilmente a un dipresso il doppio nel 2050/2100, quando la Terra sarà ancora in grado di mantenerci quasi tutti, ma forse un po’ peggio di quanto già non faccia oggi e gli scontri tra popoli e razze c’è da temere saranno peggiorati; la crisi delle materie prime, pur se mitigata da nuove tecnologie, avrà però verosimilmente fatto salire di molto i loro prezzi e aumentato la lotta per il loro controllo; i tempi di reazione militare efficace e i meccanismi semiautomatici dei sistemi di offesa, saranno probabilmente ancora più pericolosamente critici e delicati che ora; le spinte espansionistiche e le smanie di protagonismo di popoli e governanti produrranno, in un mondo più popolato e complesso, effetti sempre più devastanti anche molto lontano dai teatri di scontro; l’integrazione ormai praticamente totale dell’economia mondiale avrà fatto quasi sparire l’autosufficienza economica, moltiplicando rapporti di dipendenza e lotte, insieme ai rischi di occlusioni e quindi di trombosi ai canali di trasferimento di merci e servizi; la rapidità di spostamento di decine di milioni di anime in continuo movimento su spazi ormai aboliti, finirà per distruggere ogni possibilità di rapido contenimento e cura di eventuali ondate epidemiche naturali o dolose; potenti grandi e piccoli, militari e terroristi, guardie e ladri, si spieranno e si condizioneranno con marchingegni elettronici e chiavi logiche.

A quel punto, tra cinquant’anni, rischieremo di avere perso o di stare per perdere la nostra libertà e il nostro benessere di occidentali (relativi, ma gradevoli) mentre i Paesi più poveri potrebbero aver già abbandonato perfino le speranze di un rapido sviluppo sociale e, nel caso peggiore, in un mondo così instabile, potremmo anche porre a rischio l’esistenza stessa della nostra specie. La libertà potrebbe essere in gran parte perduta (o mai conquistata da chi non ce l’ha) perché la prima reazione direi quasi istintiva dei governanti, a qualunque livello ed in qualunque sistema, a problemi eccezionali, è lo stato d’emergenza, laddove tale nome, reminiscente della eccezionalità per far credere a una corta durata, significa in pratica divieto, regolamentazione, dittatura. Ora noi oggi ci stiamo incamminando, passo dopo passo, ma sembrerebbe inevitabilmente, verso uno stato di emergenza permanente.

Cosa si crede che faranno gli Stati del Nord ricco, se continuerà e accelererà la spinta immigratoria caotica di popolazioni del Terzo mondo con i conseguenti enormi fenomeni destabilizzanti? Molto probabilmente dichiareranno chiuse le frontiere e procederanno a espulsioni, giustificandosi con l’emergenza e i Paesi del Terzo mondo potrebbero anche arrivare al divieto di figli per emergenza. I depositi di scorie, i laboratori e le basi militari, i “circuiti” militare, nucleare, biochimico, saranno sempre più grandi e sempre più sottratti alla giurisdizione civile, perché risultino protetti in caso d’emergenza. E non potrebbero gli Americani chiudere di colpo i rubinetti di credito e grano (da cui alcuni paesi dipendono quasi interamente) per emergenza? E già oggi il presidente degli Stati Uniti non ha forse (almeno in teoria) il diritto di premere il famoso Bottone atomico, in caso di emergenza?

La libertà e con lei il diritto, moriranno di emergenza. Il benessere, che ha bisogno di un mondo aperto per crescere, sarebbe la seconda vittima del processo dell’emergenza e la pace generale forse il terzo. Tutto questo in una certa misura avverrà e sta già avvenendo, però potremmo ridurlo e anche di molto, nelle sue proporzioni, fino a mantenerlo sopportabile, fino ad annullarlo. Potremmo far sì che la temuta emergenza permanente tornasse a essere solo un’eventuale emergenza limitata, se imparassimo a considerare gli scenari futuri e a predisporre i rimedi per farvi fronte. Ma se invece quando, tra quaranta-cinquant’anni (al momento in cui vostro figlio, oggi appena nato, avrà quarant’anni e vostro nipote venti ) al momento in cui – perdurando questo stato di cose – realisticamente una prospettiva continua di emergenza comincerà a essere stabilmente operante, ci troveremo ad aver fatto troppo poco per creare in precedenza i presupposti concreti di una conquista coloniale spaziale (con la posa in opera di tutta una serie di strutture e infrastrutture adatte come porti, depositi, fabbriche per produzione di navi spaziali, centrali energetiche convenienti sui pianeti). E se non avremo impostato una politica di credibilità e ampio sostegno popolare per tale prospettiva e preparato gli strumenti giuridici per renderla possibile (accordi, convenzioni, basi di un diritto spaziale) saremo nell’impossibilità pratica di operare tale scelta in maniera rapida e incisiva. Se avremo invece operato per tempo, se avremo gettato le basi di un superamento dei nostri ormai angusti confini, potremo agire rapidamente prevenendo lo scoppio incontrollato e contemporaneo dei problemi.

Ieri non si poteva fare

Va iniziata oggi, insomma, subito e davvero, la conquista dello Spazio vicino, vedendo come organizzare “i carri dei pionieri”. Vespucci e Colombo (quello di cui gli abbrutiti di Antifa vorrebbero distruggere le statue) d’altro canto, fecero, in proporzione ai mezzi tecnici, altrettanto e forse di più e fu solo grazie a loro, a quelli come loro e a pochi sovrani illuminati, che duecento anni dopo la vecchia Europa poté mandare in una America già esplorata i suoi figli in eccesso. Potremo e dovremo allora cominciare da queste prime iniziative: a) concepire, realizzare e sperimentare un vero motore a funzionamento continuo per lo Spazio e, subito dopo, delle vere navi spaziali; b) convenire di trasportare tutte le bombe atomiche al di fuori della Terra; c) iniziare il trasferimento nello Spazio, nei corpi celesti più ostili e meno adatti alla vita, di tutte le attività altamente pericolose, chimiche, batteriologiche od altro e degli stock di materiali tossici; d) iniziare, con massicci investimenti, lo sviluppo di attività minerarie ed energetiche sui pianeti; e) fare i primi esperimenti di produzione agricola e di antropomorfizzazione dell’ambiente spaziale più potenzialmente adatto alla vita umana; f) iniziare il volontario trasferimento di tecnici e la fondazione delle prime città.

I tentativi di un razzo risolutivo per la conquista spaziale

Dalla V2 di von Braun fino allo Shuttle, il concetto basilare è sempre stato lo stesso, un razzo chimico che usa più del novanta per cento della sua capienza per carburante e non è riutilizzabile. I vari Jupiter, Atlas-Centaur, A1, Proton, che hanno marcato i primi anni delle esplorazioni spaziali, fino al Saturno V della conquista della Luna, erano tutti evoluzioni dello stesso concetto, un razzo vuoto a perdere di potenza relativamente limitata.

Pur sempre coi convenzionali e limitanti lanciatori chimici, anche in attesa dell’Sls della Nasa, (che sarà comunque il più potente vettore mai costruito finora) il 2018 si è aperto con il grande successo del lancio del Falcon Heavy, il vettore della Space X di Elon Musk che, composto da tre Falcon 9, è il più performante dai tempi del Saturno delle missioni Apollo. Non è solo l’arrivo di un nuovo vettore molto efficace (porta fino a 64 tonnellate in orbita bassa) ma è anche il primo grande lanciatore costruito da un’azienda privata. Sia pure col coordinamento (e le commesse) delle agenzie spaziali, è in atto nel mondo (e anche in Russia) una privatizzazione dello spazio, dai voli commerciali, alle grandi sfide tecnologiche. Può essere un enorme passo avanti, perché l’iniziativa privata può molto aiutare nella conquista dello spazio. Comunque sappiamo da dove siamo partiti, ma anche quale grande salto tecnologico (e morale) dobbiamo ancora fare se vogliamo costruire una civiltà spaziale. Data l’intrinseca limitazione dei lanciatori chimici, logico che si guardi anche altrove, per determinare un progresso di portata paragonabile a quello segnato dal passaggio dai velieri alle navi a vapore, provando da tempo con altre fonti di energia.

Il Progetto Orion è stato il primo progetto di veicolo a propulsione nucleare, portato avanti tra il 1950 e il 1963 dalla General Atomics con il sostegno della Darpa (Defense advanced research projects agency). Il veicolo spaziale avrebbe dovuto essere costituito da un razzo con un’apertura per il rilascio esterno di piccole bombe a fissione. Le onde d’urto create in successione dalle esplosioni avrebbero fornito la spinta. Per i progettisti, sarebbe stato così possibile raggiungere Marte in un mese e Saturno in sette mesi. Il progetto fu cancellato per il trattato che bandì gli esperimenti nucleari in atmosfera. II progetto Dedalo fu condotto, fra il 1973 e il 1978, dalla British Interplanetary Society per realizzare un’astronave interstellare senza equipaggio e prevedeva l’uso della fusione nucleare, non della fissione. L’energia era fornita da composti di deuterio ed elio 3, azionati in successione in una camera di reazione da fasci di elettroni; l’energia provocata dalle esplosioni sarebbe stata confinata da campi magnetici e canalizzata sul retro dell’astronave, per provocare la spinta del veicolo.

L’astronave, velocissima, costruita in orbita, per evitare rischi radioattivi, avrebbe raggiunto, per i progettisti, un decimo della velocità della luce, sicché un viaggio verso la Stella di Barnard, distante 5,9 anni luce, sarebbe durato circa 60 anni. Come fattibilità, la realizzazione di una fusione a confinamento inerziale per un Dedalo è però considerata molto al di sopra anche della tecnologia attuale. Il progetto Longshot è uno studio degli anni ottanta dalla Nasa con l’Us Naval Academy, come variante del Dedalo e, poiché il sistema di fusione a confinamento inerziale non potrebbe alimentare in modo efficace i motori e i sistemi dell’astronave, si userebbe un reattore convenzionale il cui peso ridurrebbe la spinta e la velocità e potrebbe raggiungere solo la metà di quella del Dedalo.

Con il Progetto Longshot un viaggio per Alpha Centauri, stella più vicina, durerebbe 100 anni. Il Progetto Vista (Vehicle interplanetary space transport applications) era una versione ridotta del Dedalo destinata ai pianeti del sistema solare. L’astronave aveva forma di cono rovesciato, nella cui punta posteriore sarebbero stati la camera di combustione contenente deuterio e trizio e un sistema di specchi per riflettere raggi laser innescanti mini-esplosioni per spingere l’astronave, che avrebbe raggiunto Marte in 60 giorni.

Negli anni Novanta lo studio Acmf, Antimatter Catalyzed Micro Fission/Fusion della Pennsylvania University, sviluppò l’idea di usare antimateria per innescare reazioni di fissione nucleare inferiore alla massa critica; reazioni che avrebbero innescato processi di fusione, per fornire energia alla propulsione. Come nel Dedalo, la spinta verrebbe fornita da mini-esplosioni ottenute da fusione nucleare, ma con diversa modalità di generarle. Nell’Acmf, il combustibile nucleare sarebbe dato da sfere di deuterio e trizio mescolate con uranio. L’uranio, bombardato da antiprotoni, reagenti coi suoi protoni dando annichilazione, provocherebbe la reazione nucleare a catena della fissione, innescando poi le reazioni di fusione del deuterio e del trizio. Anche un piccolo numero di antiprotoni può innescare la reazione nucleare, per cui basta meno uranio della massa critica, chiesta dalla fissione convenzionale. Nello studio una missione per Marte richiederebbe 150 nanogrammi di antimateria, quantità bassa, ma costosissima. Progetto Mag Orion negli anni Novanta il Progetto fu ripreso e modernizzato dalla Andrews Space col nome di Magnetic Orion.

Nella parte posteriore dell’astronave verrebbe generato un campo magnetico da anello superconduttore e le cariche nucleari sarebbero esplose a una distanza di 2 chilometri dall’astronave, generando un plasma che interagendo col campo magnetico spingerebbe in avanti l’astronave. L’astronave, da costruire in orbita attorno alla Terra, fu abbandonata a causa di enormi problemi tecnici. Nel 2000 il progetto Mag Orion, modificato in Mini Mag Orion, con le cariche nucleari sostituite da capsule di materiale fissile e al posto dell’anello bobine poste a formare un ugello magnetico, progetto apparso (2003) sulla rivista Aerospace Engineering.

Molto vicino a una realizzazione finale arrivò in realtà solo il Nerva (Nuclear Engine for Rocket Vehicle Application), programma della Commissione per l’energia atomica e della Nasa gestito dallo Space Nuclear Propulsion Office (Snpo). Fu portato avanti a partire dal 1960 (presidenza Kennedy), fino alla costruzione dei primi prototipi, prima della cancellazione nel 1972.

Nerva dimostrò che i motori di un razzo termico nucleare erano uno strumento possibile per l’esplorazione dello spazio, e alla fine del 1968 Snpo certificò che l’ultimo motore Nerva, lo Nrx/Xe, soddisfaceva i requisiti per una missione umana su Marte. I motori Nerva furono davvero costruiti e testati per quanto fu possibile e il motore fu ritenuto pronto per l’integrazione in una navicella spaziale, ma gran parte del programma spaziale americano fu annullato dall’Amministrazione Nixon, prima che una spedizione con equipaggio su Marte, proposta da von Braun, potesse aver luogo.

Il razzo Nerva si basava sulla tecnologia dei reattori nucleari in seguito chiamati Kiwi (perché, come l’uccello neozelandese, non volò mai) e la Nasa prevedeva di usarlo come motore per lo stadio chiamato Rift (Reactor-In-Flight-Test) da usarsi nei primi anni Settanta. Lo sviluppo del Nerva sarebbe dovuto diventare il motore dello stadio finale del Saturno V, il quale sarebbe stato così reso in grado di lanciare carichi anche interplanetari. Il Marshall Space Flight Center della Nasa era incaricato allo sviluppo dello stadio del razzo.

Il programma ebbe numerosi problemi, fu costoso e non ottenne sostegno pubblico, a causa della polemica anti-nucleare e soprattutto della crisi politica degli Stati Uniti agli inizi degli anni Settanta. I test sui motori non fecero in tempo a produrre più del 40 per cento della potenza teorica, anche se già così assai più potenti dei razzi chimici. Era una tecnologia intermedia (la reazione nucleare era utilizzata per riscaldare il propellente, come una caldaia nel motore a vapore), ma funzionava e invece abbiamo perso 50 anni nella corsa ai pianeti. Anni che non siamo così sicuri di avere a nostra disposizione. Il Nerva ha comunque dimostrato che si può, che un razzo nucleare può funzionare e soprattutto può, a parità di peso, spingere dal doppio a parecchie volte più di uno chimico e dunque portare molto più carico utile ed essere più veloce, il ché è dirimente per i lunghi viaggi interplanetari, dove il tempo è fondamentale per arrivare (e anche per ridurre l’esposizione degli astronauti ai raggi cosmici). La compattezza e la continuità della propulsione nucleare rende poi concepibile un viaggio senza tempi morti di attesa (per il ritorno) di una congiuntura astrale favorevole a utilizzare la gravità dei corpi celesti per ridurre la necessità di energia.

La formidabile esattezza raggiuta dai sistemi di calcolo, che permettono di testare in un simulatore (Ntrees, Nuclear Thermal Rocket Element Environmental Simulator) tutte le fasi di costruzione, hanno riaperto il progetto di un razzo nucleare, del tipo più semplice, un razzo nucleare termico (Ntr), sviluppo delle ultime serie del Nerva, ma comunque un razzo nucleare, con i grandi vantaggi su quelli chimici e la prospettiva, oltre a poter costituire gli stadi successivi dello Sls, di riaprire l’intero campo dei razzi nucleari per lo spazio più lontano.

Nel novembre del 2012 è stata progettata una Joint Venture con la Russia per un’impresa comune aperta a Francia, Gran Bretagna, Germania, Cina e Giappone. Si vedrà, comunque le due maggiori agenzie hanno ripreso gli studi e la realizzazione di prototipi. Il progetto Copernicus, se tutto andrà bene, potrebbe portare uomini su Marte in 100 giorni poco dopo gli anni Trenta del duemila.

(3/Continua)

(*) Leggi la prima parte

(**) Leggi la seconda parte

Aggiornato il 16 dicembre 2021 alle ore 09:39