Tributi e solidarietà: la perversione nazionale

In questi tormentati giorni di elaborazione della legge di bilancio, risuona nella bocca di troppi politici e sindacalisti la magica parola “solidarietà”. Tutti, sarà il Natale, gareggiano in bontà con i soldi altrui, che si chiamano tributi. Citano a sproposito l’articolo 2 della Costituzione che riguarda i diritti inviolabili dell’uomo e “i doveri inderogabili di solidarietà”, significando non la beneficenza a spese d’altri ma l’afflato libero e spontaneo verso i compatrioti dapprima. Trattasi pure di solidarismo antievangelico. Infatti, il Samaritano prende su di sé l’amorevole cura del derelitto, lo ricovera e sfama con soldi suoi, non dell’erario. L’ho già scritto qui ma giova sempre ripeterlo: è solidarietà politica quanto la maggioranza esente prende alla minoranza pagante mediante una forza che chiamano legge. Questo prelievo forzoso con destinazione prestabilita ormai viene chiamato “giustizia sociale” mentre trattasi di giustizia immorale, perpetrata proprio, guardate un po’, mediante una palese discriminazione giuridica dai vocianti paladini dell’uguaglianza legale.

Resto alla stretta attualità. Il “contributo di solidarietà” di cui si parla riguarda la sospensione del beneficio fiscale derivante dalla riforma in fieri dell’Irpef, ammesso che ne esisterà davvero uno per i redditi sopra 50mila euro. Al momento, nessuno può prevedere su quale fascia di reddito graverà l’aliquota del 45 per cento o sperabilmente sarà mantenuta quella del 43 per cento che è la massima attuale. Solo uno Stato folle può: primo, considerare “ricco” un contribuente che dichiara un reddito effettivo (a parte gli evasori che se ne guardano bene!) di 50mila o 75mila euro, le cifre ventilate; secondo, ritenere eque ed etiche le suddette aliquote da applicare a tale reddito.

E rimango ai fatti. I politici e i sindacalisti fautori della solidarietà profusa affondando le mani nelle tasche dei ricchi ai loro occhi, omettono di dichiarare che questi “ricchi” (ma in misura minore anche certe fasce “povere”, a discrezione delle Regioni) sono inoltre assoggettati alle addizionali regionali e municipali, cioè alle aliquote di imposta aggiuntiva all’Irpef. Per un esempio, basta il Lazio, dove i redditi da 55mila a 75mila euro sono gravati dall’ulteriore 3,23 per cento di Irpef, mentre per i redditi oltre i 75mila euro l’aliquota aggiuntiva raggiunge il 3,33 per cento!

Ma non finisce qui. Gli abbienti e i non abbienti (fino a 12mila euro sono esentati) che hanno il “privilegio” di vivere nella Capitale sono assoggettati all’ulteriore addizionale unica dello 0,9 per cento! Perciò i contribuenti italiani, in particolare i laziali e i romani, non sono incolpabili ma possono loro incolpare chi li incolpa di non assolvere i doveri di solidarietà sociale. Sono gli stessi governatori, gli stessi sindaci, gli stessi partiti che moraleggiano oggi.

Aggiornato il 10 dicembre 2021 alle ore 12:10