Renzi non è un caso ma una storia

Ci sono molte ragioni per il tentativo di distruggere il leader di Italia Viva da parte di forze diverse del centrosinistra, vecchi rancori e l’elezione del capo dello Stato ma anche, e soprattutto, la sua figura politica “diversa”, il suo ruolo non catalogabile, le sue modalità d’azione non sempre funzionali alle sue stesse mire, ai suoi obiettivi.

Se seguissimo (vedi “Il Riformista” dei giorni scorsi) la semplice scansione di cui sopra, non sarebbe così indispensabile giungere a una definizione esauriente di Matteo Renzi e, probabilmente, non servirebbe allo scopo se è vero come è vero che il tornante preso dalla politica in questi mesi è spiegabile, certamente, con la prossima battaglia per il Quirinale riempiendone le bisacce, peraltro svuotate da anni e anni di antipolitica. Una battaglia, quella renziana, della quale si sa ed è stato scritto tutto (e anche il suo contrario) con l’aggiunta che, all’opposto, lo scatenamento della guerra contro di lui vede in prima linea gli esponenti del giustizialismo di quel Beppe Grillo, il nemico di sempre contro cui Renzi ha sviluppato una guerra in nome del garantismo senza se e senza ma, e viene da lontano immerso com’è nelle pagine da lui scompaginate di una sinistra che non lo ha mai accettato fra i suoi, considerandolo più o meno come un incidente di percorso da superare as soon as possible, per dirla coi laburisti che pure ne hanno seguito la parabola in silenzio, peraltro non ostile.

Distruggere Renzi e sbaragliare il suo partito non soltanto in previsione della scadenza per il Quirinale dove “il che fare o faranno” dei quaranta parlamentari non può essere sottovalutato, ma soprattutto dare un colpo mortale a quel misero due per cento che, pure, lo pone fra i kingmaker più forti e più imprevedibili pensando al suo no a Matteo Salvini di qualche anno fa e alla letterale eliminazione di Giuseppe Conte espressione di un vincente (per poco) giustizialismo di lotta e di governo e all’arrivo di Mario Draghi, più recentemente.

È, se vogliamo, questione di talento, qualità sempre rara nella Polis di oggi. La rottura di giochi, sogni e disegni senza il cosiddetto terzo incomodo con l’irrilevante due per cento, sembrava cosa fatta anche e soprattutto con l’irruzione, stavamo per dire scontata, della magistratura. Ma non è bastata quell’irruzione che, al contrario, lo ha per dir così corroborato nel punching ball dei giustizialisti e dei media loro amici (e ideologi).

Ricordargli errori, pause e sconfitte è una sorta di ricostituente per il leader già premier, tant’è vero che la stessa storia del “suo” referendum perduto viene da lui ributtata come uno sgambetto per una iniziativa sacrosanta, ignorandone l’eccessiva personalizzazione come causa non ultima di quella sconfitta. Il punto è che non basta il talento per vincere e, soprattutto, per non rimanere soli. Si pensi, ad esempio, al silenzio assordante di un Partito Democratico nei confronti di un alleato nella maggioranza che sostiene Draghi. La solitudine è il vero handicap renziano: le sue non alleanze, neppure cercate, in un centrosinistra che lo detesta sono dei freni sempre più evidenti e sempre più negativi, mentre aumentano attacchi virulenti per l’avere rotto i giochi eliminando col due per cento un Conte che non soltanto esprime(va) il partito più votato per il suo giustizialismo à la carte, ma il luogo privilegiato per far risaltare la “politica dei giudici” che, non a caso, sta ora rialzando la testa, la voce. E non solo.

Aggiornato il 18 novembre 2021 alle ore 10:01