Durigon ha anche delle buone ragioni

Se il sottosegretario Claudio Durigon avesse proposto di cambiare nome a un parco intitolato da sempre a due integerrimi magistrati, per dedicarlo oggi, senza motivo, al fratello di un dittatore tragicamente scomparso più di settantacinque anni fa, sarebbe stata non solo una idea balzana, ma una provocazione antistorica e gli indignati di sinistra ed estrema sinistra sarebbero, se non altro, almeno comprensibili. Se fosse in tal modo, però non è per niente semplicemente così e quella che viene presentata come una sgangherata sparata neofascista è forse, invece, una posizione molto più liberale di quella di critici che, a ben guardare, potrebbero essere anche visti come dei meri “professionisti dell’indignazione”.

Perché il punto, fondamentale, è che quel parco, nato proprio col nome di Arnaldo Mussolini, giornalista, agronomo e presidente del Comitato forestale nazionale, in una città edificata grazie alle bonifiche ai tempi del fascismo, fu poi dal sindaco Ajmone Finestra nel 1996 e fino al 2017 fregiato nuovamente da una lapide dedicata al fratello minore del duce, morto ben prima di lui, nell’ormai lontano 1931.

Se il parco avesse mantenuto nel tempo il semplice nome di parco comunale datogli subito dopo la caduta del regime, quando Littoria fu ribattezzata Latina, la cosa sarebbe stata diversa, perché è comprensibile che, alla caduta di un sistema autoritario responsabile di una guerra perduta, non si voglia evocare nei simboli un periodo di ricordi dolorosi ancora freschi, ma a distanza di tanti anni la nuova rimozione financo della memoria del nome originale è apparsa una voluta forzatura, con battage a senso unico e presenza di esponenti nazionali per farne un caso mediatico (la proposta delle destre fu allora di intitolare ai due grandi magistrati, tra l’altro popolarissimi tra quelle stesse destre, il nuovo palazzo di giustizia).

In questo senso le considerazioni di Durigon, nato proprio a Latina da genitori veneti, chiamati a coltivare le terre rese fertili della nuova provincia, appare in realtà come un appello a ricordare la tradizione storica dei luoghi e si inserisce legittimamente in un movimento, fortunatamente ormai mondiale, contro la “cancel culture” che pretende di distruggere tutti i monumenti di ogni passato che venga, spesso arbitrariamente, giudicato con parametri odierni e manichei. Si è cominciato in America con le statue del generale Robert Edward Lee e dei sudisti, dimenticando la lezione di civiltà che, senza annullare i torti e le ragioni, fin qui l’America aveva dato, ricordando tanto i vincitori che gli sconfitti, poi con Italo Balbo e i ricordi della grande trasvolata aerea Nord-atlantica. Di esasperazione in esasperazione si è arrivati a contestare Winston Churchill in Gran Bretagna per finire ad attaccare addirittura George Washington e Cristoforo Colombo e, chissà, forse arriveranno a rifiutare la storica statua di Abramo Lincoln perché posa le braccia su due grandi fasci littori.

È la vecchia tradizione comunista di voler rifare la storia, fino a provare a cancellarne il ricordo, che risorge oggi, talvolta sposata con l’estremismo delle varie jihad, senza rendersi conto che, alla fine, sono sempre la cultura e il senso critico a scomparire, come nella distruzione talebana dei grandi Buddha in Afghanistan, segno di una crisi non della civiltà occidentale, ma semplicemente della civiltà.

Esageriamo? Non tanto, se si pensa che per una frase riferita davvero alla tradizione locale di una città si sono mossi grandi partiti, esponenti politici di primo piano e la grande stampa d’informazione a chiedere addirittura le dimissioni di un esponente del Governo. Il punto è che Durigon non ha affatto avuto delle espressioni fasciste, ma solo rispettose di una storia cittadina che ha un suo particolare rilievo, specie per i leghisti, così legati ai loro campanili.

Sul piano generale dei valori, per un liberale, il problema non si pone neppure, mentre si possono vietare tutte le incitazioni alla violenza sopraffattrice qualunque ne sia la motivazione. Nessuna manifestazione del pensiero, ideologica, politica o religiosa, può esserlo di per sé (et de hoc satis) ma, nonostante la stanca e riproposta lettura, il problema non si pone neppure a livello costituzionale, perché ben consci che la disposizione antifascista cozzava e contraddiceva con tutte le altre regole e i principi generali della Costituzione, i costituenti stessi definirono transitoria tale norma, insomma da considerare valida per il periodo di transizione dello Stato alla democrazia realizzata.

Ora, anche a voler considerare il “passato che non passa” di Ernst Nolte, dopo quasi ottant’anni tale disposizione non si può considerare altro che storicizzata, che si voglia o no dichiararlo formalmente, pena un reale vulnus logico alla nostra democrazia. Resta che alcune forze vogliono mantenerla forzosamente in vita, ma molto forte è il sospetto che un antifascismo, datato e ormai artificioso, sia in effetti un modo per veicolare di nuovo un comunismo ancor vivo, ma vergognoso di dichiararsi semplicemente tale perché condannato dalla sua drammatica storia.

Non c’è in queste note nessuna tentazione, palese o recondita, di rivalutazione generica del fascismo con le sue sciagurate leggi razziali, ma c’è però la chiara e netta riaffermazione che il comunismo fu ancora peggio. Ieri come oggi. Ma allora perché è stata montata questa organizzata gogna mediatica che le esigenze di polemica spicciola non bastano a giustificare, specie considerando le tante vie Lenin, Togliatti o Stalingrado sparse in Italia che nessuno prova a cancellare? Perché è proprio uno dei ripetuti e annosi tentativi per provare, per la via obliqua di una anacronistica unità antifascista, a riabilitare in realtà il comunismo, operazione anche in buona fede ingiustificabile e impossibile, perché le sue vittime, pure in tempo di pace, furono milioni, una enorme montagna di vittime anonime schiacciate da una impazzita macchina del terrore, resa possibile dall’universo concentrazionario comunista, dalla capillarità della presenza poliziesca, dalla pratica di massa della delazione, dai lavori forzati in Siberia e dalle fucilazioni collettive, proprie di quella dittatura.

Così è stato e non poteva essere che così, se si riflette che il comunismo non voleva solo la fine della democrazia rappresentativa e dello Stato liberale, ma anche della proprietà privata e degli spazi strettamente individuali, sicché la sua “necessità”, teorica e pratica, di usare la violenza è stata molto maggiore delle dittature di potere personale.

Anche la Guerra mondiale non fu affatto una lineare, libera e convinta alleanza con le democrazie, anzi il contrario, perché la guerra scoppiò proprio per responsabilità diretta delle due peggiori dittature, dato che la Germania nazista e la Russia comunista insieme (insieme!) invasero la Polonia dopo il patto Molotov-Ribbentrop. E, anche se per fortuna tanta acqua è passata sotto i ponti e certe ostinate parentele ideologiche si sono molto scolorite, i liberal-democratici devono anzitutto realizzare che, anche oggi, pur su di un piano fortunatamente molto diverso, i maggiori pericoli per la democrazia e la Libertà vengono di nuovo da sinistra, che si chiamino “cancel culture”, “politically correct”, globalismo soffocante, via della seta, o pseudo unità antifascista.

Abbiamo sperato e vogliamo continuare a sperare che a sinistra la pratica della democrazia li spinga finalmente ad accettarne compiutamente le regole di tolleranza e garantismo, a non considerare più come “traditori” i suoi storici riformisti da Filippo Turati a Giuseppe Saragat, da Bettino Craxi a Matteo Renzi, a non spingere persone pur dal diverso passato come Enrico Letta ad atteggiarsi a neo-comunisti, a non mantenere degli stanchi riti che mascherano la storia.

Fino a quando però a sinistra non si renderanno conto dell’universale validità della celebre dichiarazione di Voltaire “disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo” e soprattutto della sua perenne attualità, che non ammette nessuna interessata e strumentale eccezione, la nostra democrazia sarà sempre a rischio. Questo si delinea, a nostro avviso, dietro le finte polemiche sul parco di Latina e dunque, alla fine, in tutta questa vicenda, il sottosegretario all’Economia, Durigon, appare molto più liberale (e molto più democratico) dei suoi critici.

Aggiornato il 23 agosto 2021 alle ore 09:49