Nord Stream 2: Deutschland über alles

Dio creò l’Unione europea a diletto e utilità della Germania. É ciò che è scritto a caratteri cubitali nella bibbia della politica continentale del Governo tedesco. È l’articolo di fede che la signora Angela Merkel ha ostinatamente praticato nella lunga stagione trascorsa alla guida del Paese.

D’altro canto, se qualcosa in questi anni i tedeschi hanno insegnato agli europei è stato il valore autentico del concetto di interesse nazionale. Che dire? Bravi loro, stupidi noi che quegli stessi anni li abbiamo sprecati a cercare le farfalle del mito federalista europeo sotto l’Arco di Tito. “Noi”: perché in politica, diversamente dalla sfera penale, le responsabilità sono collettive. Aver subìto, senza contestare granché, dieci anni quasi ininterrotti di potere della sinistra ci ha condotto a essere, come Paese, non il motore d’Europa ma la rotella di un ingranaggio continentale, funzionale allo sviluppo della potenza geopolitica e della ricchezza di qualcun altro: la Germania, principalmente. Si vuole insinuare, con frusta espressione qualunquista, che si stesse meglio quando si stava peggio? Non lo insinuiamo: lo asseriamo, dati alla mano.

È notizia di ieri l’altro che Berlino ha raggiunto l’accordo con la nuova Amministrazione statunitense (Donald Trump si era ferocemente opposto) per il via libera al completamento del Nord Stream 2, il raddoppio del gasdotto che porta la fornitura energetica direttamente dalla Russia alla Germania attraverso 764 miglia sotto il Mar Baltico. Ma non eravamo impegnati da membri dell’Unione europea in una guerra di sanzioni e contro-sanzioni con il tiranno del Cremlino? Lo eravamo e lo siamo, con l’eccezione del “legibus solutus” tedesco.

L’intesa bilaterale concordata tra Berlino e Washington fa formalmente perno, attraverso l’inasprimento del meccanismo delle sanzioni, sull’impegno a contrastare le mire espansionistiche russe sui Paesi dell’Est Europa. Nella realtà, invece, la Germania prende il gas russo abbattendo fortemente il costo della bolletta energetica e facendo aggio sulla quota di energia che rivenderà ad altri Stati, poi però ove mai Vladimir Putin si comportasse male sarebbe cura di Berlino assicurare l’impegno dell’Unione europea – in primis dell’Italia – a stringere la corda al collo del gigante russo. Ma non si diceva che comprare il gas dalla Russia sarebbe stato un sostegno alla politica aggressiva di Mosca? Non è stata questa la motivazione con la quale l’Unione europea, su input di Berlino, ha obbligato l’Italia a uscire dall’accordo di costruzione del gasdotto “South Stream” che, nelle intenzioni di Mosca, avrebbe dovuto fornire all’Europa del Sud, mediante una pipeline e un terminale nel nostro Paese, lo stesso gas che oggi prendono i tedeschi a condizioni di favore?

Con l’applicazione delle misure restrittive ai danni della Federazione Russa, ai suoi cittadini e alle sue imprese viene limitato l’accesso ai mercati dei capitali primari e secondari dell’Ue; viene imposto il divieto del commercio di armi; è stabilito il divieto di esportazione dei beni che abbiano come utilizzatori finali militari russi; è limitato l’accesso a servizi e tecnologie sensibili che possano essere utilizzati per la produzione e la prospezione del petrolio. È comprensibile che i russi, per reazione, non comprino più i nostri prodotti e che l’export italiano ne soffra più degli altri se, ad esempio, le nostre Leonardo e Fincantieri non possono vendere a Mosca neanche un cacciavite.

Il nodo è il destino dell’Ucraina che, tuttavia, l’accordo Biden-Merkel risolve assegnando a Berlino il compito – e il potere – di difenderne gli interessi presso la corte di zar Putin. Stati Uniti e Germania si fanno garanti della prosecuzione dei pagamenti, stimati in circa 3 miliardi di dollari, dovuti da Mosca a Kiev per i diritti di transito del gas russo sul suolo ucraino. Berlino, per conto di Kiev, negozierà con Mosca il prolungamento del contratto, in scadenza nel 2024, di ulteriori dieci anni. A essere pignoli dovremmo rivedere le carte geografiche indicando Berlino, non Kiev, la capitale dell’Ucraina. Ma tant’è.

Un sogno che si avvera per i tedeschi. Era dai tempi del Lebensraum, lo spazio vitale, che l’Ucraina veleggiava in cima ai pensieri degli inquilini della Cancelleria a Berlino. Ma oggi è vero fino a un certo punto perché, a fronte della richiesta americana di introdurre nell’accordo un “kill switch”, un “interruttore d’emergenza” di blocco del gasdotto nel caso che Mosca compia azioni dannose per i Paesi limitrofi o contro Stati membri dell’Ue, i tedeschi hanno risposto con un secco: “No, grazie”. Il che vuol dire che qualsiasi cosa faccia Putin ad altri Stati europei i Nord Stream 1 e 2 non si fermeranno, continueranno a pompare materia prima energetica per la gioia dell’apparato industriale tedesco. Al più, sarà l’Italia, e qualche altro scalcinato socio dell’Ue, a pagare il prezzo di nuove sanzioni al gigante russo.

Se non fosse una situazione drammatica sarebbe da sbellicarsi dal ridere per l’aspetto grottesco della vicenda. Ma il vantaggio competitivo sull’approvvigionamento energetico non è l’unico benefit che la potenza tedesca si è accaparrato. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è impegnata a presentare l’ultimo gioiello della sua creazione: il piano contro le emissioni inquinanti denominato “Fit for 55”. Il punto di forza del piano riguarda l’eliminazione delle automobili a benzina e diesel a partire dal 2035. Se dovesse essere realizzato sarebbe un colpo mortale per l’industria dell’auto nel nostro Paese, con terrificanti ricadute in termini di crisi occupazionale.

Qualcuno in Europa – non Roma – ha fatto notare che l’ambizioso progetto se, da un lato, demolisce i sistemi industriali di mezzo continente, Francia compresa, dall’altro – sarà casuale? – favorisce gli interessi del comparto automotive tedesco che è più avanti nell’implementazione dei motori a propulsione elettrica. C’è anche la questione dell’acciaio che è in ballo con il colossale imbroglio della transizione ecologica. La vicenda dell’acciaieria di Taranto, il principale polo siderurgico europeo, si è parzialmente risolta con la partecipazione di Invitalia, controllata del ministero dell’Economia, al capitale azionario della nuova società proprietaria del sito “Acciaierie d’Italia”. L’ingresso dello Stato nella produzione dell’acciaio è stato un passo obbligato per mettere in sicurezza il manifatturiero italiano. La spinta che viene da Bruxelles è alla decarbonizzazione del sito tarantino a beneficio della produzione del cosiddetto “acciaio verde”, ecologicamente sostenibile. Intento lodevolissimo se non fosse per un particolare non secondario. L’acciaio verde fa schizzare i costi di produzione con la conseguenza di spingerlo fuori mercato. Senza normative europee stringenti sull’uso di acciai ecosostenibili chi comprerebbe il “verde” italiano?

A fare concorrenza intraeuropea all’Italia è la siderurgia tedesca con una produzione, nel 2020, di 35,7 milioni di tonnellate di cui il 70 per cento da altoforno e il 30 per cento da forno elettrico (fonte: sito on-line Industria Italiana). Nella bilancia commerciale dell’import-export tra Italia e Germania, nel comparto siderurgico, attualmente i numeri ci danno ragione: “Sul totale dell’export di acciaio verso Berlino, l’Italia ha un valore dell’11,5 per cento e se si guarda alla filiera siderurgica “allargata”, ai settori industriali che impiegano sulle linee questi prodotti, il valore di quanto acciaio l’Italia vende in Germania supera il 35 per cento” (Fonte: Siderweb).

Cosa accadrebbe se l’acciaio italiano non fosse più competitivo? Chi coprirebbe gli spazi di mercato lasciati vuoti se non il tradizionale “acciaio grigio” tedesco? Potremmo continuare a lungo nella citazione di dossier che vedono soccombente la nostra economia e vincente quella germanica per effetto dei rapporti di forza squilibrati all’interno dell’Unione tra i due Paesi. Ciò che conta evidenziare non è quanto sia forte la volontà di potenza tedesca. Il problema siamo noi. O meglio: lo è quel senso servile, ottuso, autolesionista, tutto di sinistra, di concepire l’appartenenza al progetto europeo. Quando, come Paese, finalmente capiremo che il solo modo per stare con dignità in un’Europa unita è quello di difendere a denti stretti gli interessi nazionali evitando di svendere sovranità con la tecnica dello “spezzatino”, non sarà mai troppo tardi. O forse sì?

Aggiornato il 26 luglio 2021 alle ore 09:37