
Nel bel mezzo di una pandemia e di una recessione mondiale il principio della libertà di parola è diventato il fulcro di una guerra culturale e politica tra destra e sinistra. Come ha scritto Alfredo Mantovano in un recente articolo su Tempi e rilanciato dal Centro studi Rosario Livatino: “Quarant’anni dopo omofobo sostituisce fascista, e titolato ad adoperarlo nei confronti del nemico di volta in volta preso di mira è il mainstream anni 2020, meno strutturato rispetto all’antico Partito Comunista italiano: una galassia che conosce punti di forza nelle redazioni dei media più diffusi, e individua nella giurisdizione lo strumento attraverso cui stroncare, se necessario col carcere, non già chi in qualsiasi modo offende una persona perché omo o transessuale, bensì chi esprime riserve e perplessità per i cosiddetti nuovi diritti”.
Tutto questo rientra in un fenomeno più specifico e globale che ricomprende al suo interno la libertà di pensiero: la cancel culture. Dagli Usa alla Gran Bretagna ma anche toccando altri Paesi europei si censiscono crescenti insofferenze verso esploratori come Cristoforo Colombo, generali come Robert Edward Lee, uomini politici come Cecil Rhodes e Winston Churchill, scrittrici come Flannery O’Connor, giornalisti come Indro Montanelli. Di questi personaggi un tempo non troppo lontano si celebravano le gesta e le imprese, oggi sono visti come razzisti, schiavisti, sessisti, simboli di culture intrise di disprezzo dei “non bianchi” e dei “diversi”, talmente ripugnanti da dover essere “cancellati” dalla memoria collettiva. Le loro statue o i loro monumenti sono rimossi, abbattuti oppure imbrattati. Si moltiplicano iniziative volte a cancellare l’intestazione di strade, edifici, bandiere, stendardi e festività in onore di personalità la cui memoria va rimossa.
Non inganniamoci, linciaggio e ostracismo non sono fenomeni nuovi né sono nati con i social. Ci sono sempre state forme di controllo sociale basate nella vergogna e il rifiuto. In effetti, erano un elemento fondamentale del puritanesimo e sono ancora comuni nella maggioranza delle religioni.
Nell’antica Grecia, ad esempio, ogni anno si riuniva un’assemblea che votava se era necessario bandire un cittadino. Se così era, si convocava un’altra votazione pubblica perché ogni persona scrivesse su un frammento di ceramica o su una conchiglia il nome della persona che doveva essere esiliata per contribuire all’ordine pubblico. Il condannato all’ostrakismos doveva lasciare la città entro 10 giorni e non poteva tornare prima dei dieci anni. In alcuni casi questa esclusione equivaleva a una condanna a morte perché a quei tempi era molto difficile sopravvivere fuori dalle città. Da quel momento in poi l’ostracismo non fece che degenerare.
Nel Medioevo le “streghe” (che spesso non erano neppure tali) venivano linciate e le donne adultere pure. Durante il secolo scorso, negli Stati Uniti ci furono terribili linciaggi di afroamericani. E alla fine della Seconda guerra mondiale non mancarono i linciaggi e la pubblica derisione dei simpatizzanti e collaboratori degli sconfitti. L’ostracismo e il linciaggio hanno lo scopo di omogeneizzare alcune idee e comportamenti socialmente desiderabili. La persona o il gruppo punito serve da esempio pubblico, in modo che gli altri non osino andare controcorrente. Questa corrente può talvolta essere comandata da un dittatore o da un gruppo – più o meno numeroso – che esercita il potere. Il risultato è lo stesso: sottomettere e mettere a tacere i dissidenti.
Attualmente i social network hanno solo amplificato questo fenomeno, cercando di imporre una corretta visione del fare e una giusta ideologia in nome della quale si intende cancellare tutto ciò che non corrisponde a quei canoni. La cancel culture rappresenta una battaglia ai confini di due culture, quella che Vamik Volkan chiama “psicologia di confine”. Per fare un esempio, una statua rappresenta una cosa per un gruppo – ricordi legati alla schiavitù, alla distruzione della famiglia e della cultura, alla sottomissione – e per un altro gruppo rappresenta invece l’orgoglio, la gloria passata, la cultura locale, e così via.
Coloro che vogliono difendere e mantenere immagini e simboli del passato, lo fanno in quanto avvertono il bisogno di conservare la loro “identità di gruppo allargato”. È facile capire come un gruppo debba distruggere tali simboli per prosperare, mentre un altro gruppo combatte per la propria sopravvivenza (percepita) tentando di preservarli.
Qualsiasi argomento a favore della conservazione si trova all’interno di un quadro etico: commemorare una grande perdita o incarnare la decisione collettiva di imparare dal passato e prevenire il ripetersi di orrori contro gli altri, come nei memoriali della schiavitù e dell’Olocausto, ne sono ottimi esempi. Essi sono trasformativi, angoscianti ma culturalmente delimitati; servono a promuovere lo sviluppo sociale attraverso l’esposizione e l’istruzione, consentendo al contempo di promuove un senso di dolore, e la ricerca di una giustizia collettiva.
Noam Chomsky dice: “Se sei a favore della libertà d’espressione, credi nella libertà d’espressione per le opinioni che non ti piacciono (…) Altrimenti non sei a favore della libertà d’espressione”. È successo che i tempi di oggi sono tempi bui, tempi dove il nuovo censore in versione social si erge a difensore di una morale senza tempo compiendo la solita violenza che da secoli conosciamo, quella in nome di una difesa identitaria/culturale “a prescindere” che spazza via la conoscenza della storia (quella degli uomini) e ripropone sulla scena la Storia, dove comodamente ci si può che disinteressare allo sforzo di comprendere oltre gli schemi che la propaganda propone.
Gli intellettuali forse dovrebbero fare attenzione ad osservare e discutere di come oggi la censura non operi più solo nei tribunali, ma piuttosto nelle viscere di una social-democrazia che opera in nome della Verità del Presente alla quale tutti dovremmo piegarci in quanto essa, mostrandosi senza un colore – o meglio comprendendoli tutti – è priva di un’idea di storia e di società, concetti che disturbano il nostro “Controllore” indaffarato a semplificarci le cose, tra cui anche il pensare con la propria testa.
Un’infinita possibilità di connessione e di informazione ci rende veramente soggetti liberi? La nuova società del controllo psicopolitico, che non si impone con divieti e non ci obbliga al silenzio: ci invita invece di continuo a comunicare, a condividere, a esprimere opinioni e desideri, a raccontare la nostra vita. Ci seduce con un volto amichevole, mappa la nostra psiche e la quantifica attraverso i big data, ci stimola all’uso di dispositivi di automonitoraggio. Nel panottico digitale del nuovo millennio – con internet e gli smartphone – non si viene torturati, ma twittati o postati: il soggetto e la sua psiche diventano produttori di masse di dati personali che sono costantemente monetizzati e commercializzati.
Stiamo vivendo un cambio di paradigma, la libertà oggi va incontro a una fatale dialettica che la porta a rovesciarsi in costrizione: per ridefinirla è necessario diventare eretici, rivolgersi alla libera scelta, alla non conformità.
Aggiornato il 07 luglio 2021 alle ore 10:33