Libertà e fisco che non ci sarà

Sta nelle cose e sta nei sogni: riforme strutturali non sono pane per i governi di larghissima coalizione, com’è quello presieduto da Mario Draghi. Le distanze ideologiche tra i partiti di maggioranza non possono che riaffiorare a ogni piè sospinto, e siccome le riforme strutturali muovono per forza di cose – altrimenti non sarebbero tali – dalla visione che ognuno di essi propone della società e dell’economia, è naturale che nei governi di unità i compromessi portino a risultati “al ribasso”.

Questo è quel che forse accadrà con la riforma tributaria allo studio di Parlamento e Governo. Gli interventi, che pure saranno da tutti sbandierati come grandi vittorie, si limiteranno probabilmente a poche cose: scaglioni o forma di progressività dell’Irpef, aliquote di questa e dell’Iva, qualcosa sulla tassazione regionale, qualche modifica sulla riscossione e sul contrasto all’evasione. Qualcosa, forse, sul processo tributario.

Il sistema nel suo complesso, tuttavia, rimarrà quello degli anni Settanta del secolo scorso, studiato negli anni Cinquanta e Sessanta da uomini formatisi negli anni Venti. Ere geologiche fa. Eppure, il fisco è uno dei terreni sul quale l’economia italiana gioca una porzione considerevole del suo futuro, di rilancio oppure di stagnazione o perfino di recessione. Non è il solo terreno, ma è uno dei fondamentali.

Per questo, quando si avvierà la prossima campagna elettorale per il voto nazionale, le forze politiche non potranno che presentare un disegno fiscale coerente, chiaro e di sistema, finanche dettagliato. Accompagnato da un altrettanto chiaro disegno sulla spesa, perché non potrà esserci vera riforma strutturale delle entrate se non ci sarà al tempo stesso una riforma ugualmente strutturale della spesa. Su questi temi si giocherà la credibilità delle proposte politiche al prossimo giro elettorale.

Tutto questo sta nelle cose, ma cosa sta nel sogno? La crisi della nostra economia può essere efficacemente affrontata trasformando il fisco da “limitatore” a “facilitatore” delle libertà, da “freno” a “pungolo” della produzione e dello sviluppo, seguendo il principio di equità. Principio da declinare in termini concretamente nuovi, in funzione cioè della doppia faccia che esso manifesta: quella a favore di “chi meno ha”, ma anche quella a favore di “chi più ha” in ragione del lavoro e della ricchezza reale prodotta.

La domanda centrale alla quale prima o poi si dovrà rispondere, allora, diventa questa: come strutturare un sistema che consenta di “pagare equamente”, che non sia disincentivante e frustrante per chi lavora e progetta il futuro?

“Pagare equamente” significa per prima cosa riequilibrare la pressione fiscale: ridurla significativamente a favore di chi “fabbrica” e investe per “fabbricare” nuova ricchezza reale e dà occupazione, ossia a favore delle imprese di produzione e dei lavoratori autonomi, ma anche a favore di chi contribuisce fattivamente a quelle creazioni, ossia i lavoratori dipendenti, e poi a favore di chi produce esternalità positive nel settore ambientale, alimentare, sociale, di chi ricerca e innova; ma anche aumentarla per chi produce esternalità negative, dannose e costose per la collettività e per le finanze pubbliche, per sacche di ricchezza oggi intonse o quasi intonse, diverse da quelle trasformatesi in patrimonio e perciò già tassate, per nuovi indici di ricchezza creati dall’età digitale.

L’altro versante dell’equità sta nell’obbligo di “pagare tutti”, ma perché questo accada e prenda corpo, così, lo spirito solidaristico, è indispensabile che il sistema sia anzitutto equo, che non svilisca, ma anzi esalti le libertà. Libertà e solidarietà, infatti, sono facce della stessa medaglia e pretendono entrambe rispetto.

Chi saprà coniugare concretamente questi due versanti, vincerà.

(*) agiovannini.it

Aggiornato il 22 giugno 2021 alle ore 09:30