Perché dopo una scissione ci si chiede “cui prodest?”

Si dice che il “povero” Antonio Tajani l’abbia presa proprio male questa volta con l’uscita di 11 deputati da Forza Italia. Quanto a Silvio Berlusconi, non è pervenuto sia per il malanno occorsogli sia per le varie dichiarazioni attribuitegli da chi se né andato, da chi è rimasto e da chi… se ne andrà? Dunque tempo d’estate e tempo di scissioni, come si usava dire una volta, quando gli scissionisti appartenevano, prevalentemente, ai partiti socialisti per l’attrazione fatale, di volta in volta, del Partito Comunista italiano e della Democrazia Cristiana.

Things change, le cose cambiano col passare degli anni e dei partiti, tanto più se, guardando all’oggi, di partiti degni di questo nome se ne vedono ben pochi. Non è un caso che l’epicentro delle scissioni sia prevalentemente quella Forza Italia che di partito non vuole sentire parlare, al massimo di movimento, ed è stato sempre il suo fondatore a negare qualsiasi forma, sia rappresentativa che organizzata, alla sua creatura. In realtà, la sua creatura coincide con lui e insieme sono Forza Italia: che bisogno c’è di vecchie bardature partitiche?

Sono così derivati e derivano i tanti ribelli a questo ordine delle cose che prendono a pretesto la scarsa o nulla capacità di ascolto aggiungendo, nella scissione di questi giorni, che il partito ha da tempo perso la spinta propulsiva e che sia giunto a fine corsa, anche a causa del disinteresse di Berlusconi – non in condizioni fisiche e di salute – a recuperare i milioni di voti persi.

Il susseguirsi di scissioni non può non avere una caratura politica prima ancora che trasformistica ed è assai probabile che la stessa fuoriuscita – divenuta via-via sistematica di personaggi di spessore come Romani, Zanella, Ravetto con seguiti assai consistenti – non abbia suonato l’allarme per bloccarne di nuove e, soprattutto, per strutturare Forza Italia con organismi interni, assemblee, direttivi, esecutivi rinnovati da congressi veri e da norme uguali per tutti.

Sicché con l’arrivo di Tajani se ne sono andati 50 parlamentari mentre la consistenza di Forza Italia, voluta e impersonata dal Cavaliere per recuperare, rappresentare e promuovere un necessario centro politico, era al 35 per cento nel 1995, ora oscilla fra il 6 e l’8 per cento e col nuovo arrivato, Coraggio Italia, di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, la percentuale scenderà.

Chi vivrà vedrà, come si dice. Il fatto è che anche questo ennesimo sconvolgimento a destra, pur tenendo conto dei conseguenti “arricchimenti interni” di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, rientra come tutte le scissioni viste fino ad ora in una sorta di terra (politica) di nessuno, nel senso che non è di grande ausilio a chi la fa, inevitabilmente rimasto senza più un partito che, a sua volta, è reso sempre più debole dalla fuoriuscita e sempre meno decisivo in un’alleanza in cui la decrescita del centro è fonte non solo di disequilibri, ma opera una spinta a destra senza quel filtro che ne tempera certi impulsi e che, tra l’altro, dà una ragione alla stessa sigla del centrodestra.

Non solo, ma nel centrodestra di questi giorni spaccato dalla scissione è saltato il vertice per scegliere i sindaci, facendo infuriare il “povero” Tajani, minacciando che con gli scissionisti non farà nessun summit, mentre Salvini disdice il tavolo sulle Amministrative per svelenire il clima.

Quanto al Governo, resta da vedere quali contraccolpi questa scissione possa provocare sulla strada di un Mario Draghi che comincia ad essere in salita. La riflessione sul cui prodest di quasi tutte le scissioni, e a maggior ragione di questa, è particolarmente attuale.

Aggiornato il 31 maggio 2021 alle ore 09:47