
Ecco una misura che sulla carta farebbe stragodere i populisti bipartisan che cercano di annegare l’Italia e buona parte dell’Occidente. È tipica delle discussioni da bar: “Far lavorare chi sta in galera”. Dimenticano, i giustizialisti, che in Italia sono i detenuti a chiedere di poter lavorare (controllati, ovvio). Se però si tratta di una normativa fatta applicare da Vladimir Putin in Russia (per ora è una proposta da confermare), allora la cosa è ben diversa da un articolo bilioso su Il Fatto o da una discussione su una panchina.
La putinata del direttore del Servizio penitenziario federale, Alexander Kalashnikov (nomen omen), consiste nel procurare operai e manovali “gratuiti”, sbattendo nei cantieri e in altre opere pubbliche i detenuti delle carceri. Questa policy di stampo zarista-sovietico permetterebbe per giunta di bloccare l’afflusso di immigrati in Russia. Due piccioni con una fava: gli impiccapopoli del mondo alleluierebbero. Ovviamente, anche il pueblo unido russo approva – tramite la stampa di regime – l’idea. Magari hanno tutti paura di finire dirottati a Minsk, nelle braccia di Alexander Lukashenko.
Secondo la portavoce del Comitato Investigativo russo, Svetlana Petrenko: “L’idea del direttore del Servizio penitenziario federale di sostituire i lavoratori immigrati impiegati nel settore edilizio e industriale con i detenuti è razionale e merita sostegno… il legislatore consente la sostituzione di parte della pena con i lavori forzati, e questo è coerente con l’intento di umanizzare la detenzione”.
Ecco, prima che a qualcuno in Italia salti in testa di imitare l’idea di Kalashnikov – temo che otterrebbe applausi a scena aperta – occorre ricordare che un conto è far fare, su base volontaria, lavori socialmente utili ai carcerati italiani (ripeto: cosa positiva e desiderata da chi sta in galera), mentre ben altro conto è essere costretti ai lavori forzati in una nazione dove l’Arcipelago Gulag arrivava dall’Ucraina fino alla Kamchatka.
Non si dimentichi che al di là del Muro erano rinchiusi interi popoli, cioé centinaia di milioni di persone impossibilitate a fuggire. Solo pochissimi riuscivano a evadere, a rischio di essere presi a fucilate sulla linea di confine. Come dire? L’idea del direttore del Federal penitentiary service russo si basa su una concezione del rapporto Stato-cittadino, che ha purtroppo basi ultrasecolari risorgenti sotto qualsiasi regime, perché il problema – appunto – è la persistenza del regime.
Aggiornato il 28 maggio 2021 alle ore 09:23