La toga dimenticata

Giunge notizia dalla stampa a larga diffusione che la rivista edita a cura di “Magistratura democratica”, corrente di sinistra della magistratura – Questione giustizia – ha duramente criticato Matteo Renzi per la conferenza andata in scena a Riad e per il compenso accettato par farla. La rivista – sotto il significativo titolo “Legittimare un despota? E per un piatto di lenticchie?” – scrive che “si è assistito a una svendita a prezzo di saldo non dell’immagine di Matteo Renzi, ma di quella del nostro Paese, messo in evidente imbarazzo dalla sconcertante performance televisiva di un suo esponente politico di primo piano” (appunto, Renzi).

Bello, no? Sembra un pezzo di un quotidiano di partito – che so, l’Unità o il Manifesto – e invece si tratta di una rivista di una corrente della magistratura, che critica pesantemente un esponente politico che ha svolto il ruolo di capo del Governo. Così facendo, la corrente di cui sopra si comporta né più né meno di un partito politico che, invece di esser formato da normali cittadini, è costituito da magistrati in servizio e perfino attivisti di corrente. Allora, perché meravigliarsi delle cose raccontate da Luca Palamara nel suo libro, e peraltro ben note anche in precedenza?

Infatti, siamo in presenza di una vera ed autentica militanza politica di persone che, dimenticando di indossare la toga, interloquiscono con il capo di un partito già capo del Governo. La toga, la dimenticata e negletta toga nera, indossata in udienza pubblica dai magistrati, che ruolo riveste? Essa assolve alla funzione simbolica di significare la imparzialità del giudice, di colui cioè che, chiamato ad una vera missione impossibile – giudicare l’operato dei propri simili – non si veste con indumenti di alcun colore, lasciandosi ricoprire soltanto dal nero. Perché questo tutti li comprende senza preferenza per nessuno: esattamente come pretende e richiede la imparzialità del giudice. Eppure, il senso della toga pare dimenticato, il nero tende a colorarsi di colori vari, e comunque di quei colori che permettono ad alcuni magistrati di ergersi ad interlocutori politici di ex capi di Governo.

E come faranno costoro se, per qualunque motivazione, la vicenda di questa benedetta conferenza e del compenso ricevuto dovesse giungere al centro di una qualche controversia davanti ad un Tribunale? Non si rendono conto di aver già in partenza delegittimato qualunque azione possibile di qualunque magistrato italiano, anche del più irreprensibile? No, non sembra se ne rendano conto. Né ci si può nascondere dietro l’apparente funzione culturale di una rivista e neppure dietro il paravento della libertà di manifestazione del pensiero, a tutti garantita dalla Costituzione e perciò anche ai magistrati. Infatti, libertà di manifestare il proprio pensiero per un magistrato non significa, certo, poter impunemente scrivere cose del genere di quelle sopra citate come nulla fosse, perché non possono non esserci dei limiti.

Il primo limite sta, infatti, nel senso della funzione esercitata che, essendo dedicata alla delicatissima opera di giudicare le condotte dei propri simili, richiede un equilibrio ed una equidistanza di posizioni qui del tutto assenti. Nessuno vieta certo ad un magistrato di scrivere un articolo su di un quotidiano, un saggio su una rivista giuridica o un pezzo su un rotocalco, per esprimere il proprio pensiero su qualunque argomento. Ma usare una rivista di una corrente quale organo di contesa politica pare davvero il culmine di quella politicizzazione della magistratura, oggi quanto mai nell’occhio del ciclone. Lo capirà chi dovrebbe capirlo per intervenire?

Aggiornato il 03 marzo 2021 alle ore 09:37