
Nota a margine
Il Governo di Mario Draghi è speciale sotto vari riguardi, che negli ultimi giorni sono stati rilevati e sottolineati da più parti, adoperando definizioni che ne qualificavano questo o quel connotato, a preferenza del commentatore o del politico: governo del presidente, inteso come scelto e imposto dal presidente della Repubblica; governo istituzionale, sottintendendo disancorato dai partiti, dal momento che il governo di una nazione è l’istituzione per eccellenza; governo di emergenza, perché formato per fronteggiare la pandemia e utilizzare l’eccezionale provvista di fondi europei; governo di larghe intese, auspicando la fiducia di una maggioranza comprensiva di quasi tutto lo spettro parlamentare; governo tecnico, perché sottratto ai professionisti della politica; governo tecnico-politico, per la commistione di politici e specialisti; governo a tempo, che duri solo il tempo necessario a risolvere le emergenze; governo di scopo, più o meno per il tempo indispensabile a conseguirlo.
Il Governo Draghi, considerandone la compagine in carne ed ossa, ha corrisposto sorprendentemente quasi a perfezione alle definizioni incentrate sul processo di formazione, che attengono infatti alla sostanza politica. Ma qual è il carattere costituzionale? Il Governo Draghi, al di là dei meriti dei ministri e delle altre novità strettamente d’attualità, resta un governo parlamentare basato sulla fiducia delle Camere e strutturato secondo l’articolo 95 della Costituzione, il quale, per quanto elastico, esclude che Draghi possa essere considerato “il capo dell’Esecutivo”; i ministri, “suoi sottoposti”; il Consiglio dei ministri, “il consiglio d’amministrazione” di un presidente padrone. Mario Draghi, come tutti i presidenti del Consiglio, è un “primus inter pares” con un ruolo bensì direttivo e di coordinamento ma non di primazia assoluta, tant’è che egli propone soltanto la nomina dei ministri e non può in alcun modo revocarli. È vero che egli dirige la politica generale del governo e ne risponde, mentre mantiene l’unità d’indirizzo politico ed amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei ministri. Ma è vero anche che i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri. In breve, il Governo italiano nella previsione costituzionale è incentrato sul Consiglio dei ministri, non già sul presidente del Consiglio. Dunque la politica generale, l’indirizzo politico e amministrativo del Governo, è deciso, cioè determinato, dall’organo collegiale “Consiglio dei ministri”.
Questo è “il figurino costituzionale”. Le Costituzioni però non sono soltanto prefigurate dal modello giuridico bensì pure conformate dalla politica, che è lotta di potere tra uomini. Esistono “the constitution in book” e “the constitution in action”. Proprio “the living constitution”, la considerazione della “costituzione vivente” potrebbe suggerire al momento che non debba escludersi un’evoluzione di fatto del Governo Draghi in “premierato” Draghi. La personalità del presidente Draghi, l’eccezionalità del contesto di formazione e azione del suo governo, l’assenza di un’opposizione parlamentare pregiudizialmente alternativa, gli scopi definiti e prefissati dell’indirizzo politico, le aspettative vitali dell’Unione europea, sono tutte circostanze che potrebbero conferire a Draghi una sorta di primazia alla maniera britannica, sebbene qui non consacrata dalle urne, che fa del primo ministro del Regno Unito la vera guida della nazione e il dominus assoluto dell’Esecutivo e dei suoi ministri, che dipendono dal suo diretto consenso per restare in carica.
Un premierato morale e materiale, forse non perfettamente conforme alla lettera della Costituzione ma certo non contrario né al suo spirito né ad un governo rappresentativo al passo con i tempi, instaurato per consenso dei soggetti istituzionali e per fatti concludenti degli interessati. Giova ricordare in proposito, e non solo come curiosità storica, che nel 1848, all’inizio del nostro Stato costituzionale, lo Statuto stabiliva che il potere esecutivo “apparteneva al Re solo”, che nominava e revocava “i suoi ministri”. Eppure, lo Statuto fu presto interpretato all’opposto nel senso che il Governo fosse bensì del Re ma dovesse godere della fiducia del ramo rappresentativo del Parlamento, la Camera dei deputati. La Monarchia e la Rappresentanza istituirono così, per convenzione costituzionale (“praeter Statutum”), la forma di governo parlamentare che dura ancora oggi.
Aggiornato il 15 febbraio 2021 alle ore 09:40