Meglio un Draghi nostromo che santo

Nota a margine

Intervistato da Dario Di Vico sul “Corriere Economia”, il saggio Giuseppe De Rita ci ha fornito la migliore inquadratura del neo-premier Mario Draghi e della missione assegnatagli dalla congiuntura politica, piuttosto che dalle intenzioni dei politici. “Draghi – ha sottolineato De Rita – deve far sponda a questa ritrovata voglia di normalità, il suo retroterra è quello. Deve alzare le antenne e saperla interpretare perciò dico che la creazione dell’immagine di un Draghi astrale non lo aiuta. Non vogliamo un premier estraneo a noi tutti, vogliamo una guida politica che abbia l’orgoglio della competenza, ma che sappia anche mettere fine a un ciclo scomposto ed inconcludente. La maggioranza silenziosa la pensa così”.

Il fatto è che la canonizzazione di Mario Draghi è apparsa inevitabile ai partiti e alla stampa, perché il “postulatore della fede” era lo stesso papa regnante al Quirinale, mentre uno ch’è uno disposto a fungere da “promotore di giustizia” non è stato trovato, sicché, in assenza dell’avvocato del diavolo, Draghi è stato proclamato “santo subito” per sentenza ecclesiastica e acclamazione mediatica. L’aver accettato Draghi l’onere di governare nelle drammatiche condizioni della pandemia gli conferisce, senz’altro, l’aureola del martire e ciò esonera il “postulatore della fede” dal dover esibire un miracolo come prova della santità. Il martirio attesta di per sé la grazia santificante. Fuor di metafora, tuttavia, sembra che una larghissima opinione pubblica se li aspetti davvero i miracoli da Draghi. E tale aspettativa contiene il pericolo della disillusione, scongiurabile solo se il governo e i governati agiranno in base alla situazione reale e alla verità effettuale, ben considerando i mali e meglio ponderando i rimedi.

Il governo Draghi sa che spenderà debiti, non risparmi. Perciò è già stato chiaro sul “debito buono”. Nondimeno, seppure il fondo per la rinascita fosse interamente impiegato in investimenti produttivi, com’è sperabile, non basterebbe ad ottenere l’atteso sviluppo virtuoso, generale e diffuso, dell’economia nazionale. Mario Draghi, piuttosto che a un santo miracoloso o a un sovrano taumaturgo, è assimilabile al “gubernator”, il capitano-timoniere di una trireme, al momento “senza nocchiero in gran tempesta”. Potrà tracciarne la rotta, indirizzarla, metterla in favore di mare, ma, al dunque, saranno i rematori, l’apparato produttivo, a spingere la barca, magari agevolati dal vento della ripresa interna e internazionale. Egli dovrà tenere in ordine l’imbarcazione, armonizzare i colpi della remata, galvanizzare i marinai. Dovrà essenzialmente orientare, incentivare, incoraggiare, esortare l’equipaggio; liberare lo scafo dalle remore e dalle secche frenanti; predisporre nel miglior modo l’occorrente per la navigazione; trarre la nave fuori dal porto perché prenda il largo e navighi finalmente con i mezzi propri.

I soldi europei, benché ingenti, basteranno forse al rimessaggio dello Stato, alla manutenzione della pubblica amministrazione e alla riparazione dei danni economici, ma non ad animare quel nuovo Risorgimento di cui l’Italia ha bisogno per riunificarsi politicamente e moralmente, per sperare il meglio anziché temere il peggio, per ritrovare la fiducia nelle proprie forze, per rimettere al lavoro tutte le braccia e le menti della società. Creare ricchezza aggiuntiva, nuovo benessere, è compito degl’Italiani, tutti. Il governo, se provvido e benevolo, deve aiutarli a rimboccarsi le maniche, non imboccarli. Deve liberarne le energie finora rattenute e intralciate da autolesionistiche costrizioni e restrizioni camuffate da “diritto”.

Aggiornato il 11 febbraio 2021 alle ore 12:15