Cinque Stelle: delitto e castigo

Il Governo di Mario Draghi miete vittime ancor prima di nascere. La prima di esse è il Movimento Cinque Stelle. Il non-partito di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio vive uno psicodramma. Il rischio d’implosione cresce con il trasformarsi del voto di fiducia al Governo di salvezza nazionale in un labirintico Comma 22 (ricordate il romanzo “Catch 22” di Joseph Heller?). La decisione, in un senso o nell’altro, segnerà il punto di non ritorno per una forza politica che nel volgere di uno scorcio di legislatura ha smarrito se stessa, ha perso l’identità originaria e ha tradito la promessa fatta all’elettorato di essere forza anti-sistema. Si potrebbe pesantemente ironizzare sulla condizione dei pentastellati, ma non sarebbe cavalleresco. Come nell’arte della guerra anche in quella della politica vale la regola aurea per la quale i nemici vanno lealmente sconfitti, ma non derisi. Bisogna avere rispetto anche per coloro che la parola rispetto non sanno cosa significhi. Per i grillini, dire sì a Mario Draghi non è una scelta obbligata ma la certificazione del fallimento di un’utopia. È quindi comprensibile che crescano le voci didentro contrarie a imbarcarsi nell’ultima mortificante impresa: governare insieme ai vituperati nemici.

Il fronte del “No a Draghi” ha ottenuto che una decisione tanto devastante per l’identità del Movimento fosse affidata agli iscritti alla piattaforma digitale Rousseau, spregiudicato simulacro della democrazia diretta. Gli aventi diritto avrebbero dovuto votare a partire da oggi fino a domani alle ore 13. Ma con un intervento d’imperio, il garante Beppe Grillo ha bloccato la consultazione e preso tempo. Troppo grande il rischio di sfidare la sorte, lasciando alla base l’ultima parola. Come finirà? Non è facile prevederlo. Le consultazioni effettuate in passato, ad eccezione di una in fase iniziale, sono state poco più di una formalità. Stavolta è diverso. Superata la paura di essere rispediti a casa prima del previsto (il Governo Draghi durerà almeno fino al febbraio 2022) i parlamentari Cinque Stelle hanno potuto esprimersi con relativa tranquillità sul comportamento da adottare rispetto al Governo di salvezza nazionale. E il dissenso sulla scelta governista dei vertici è venuto a galla. D’altro canto, una divaricazione netta sul da farsi ci sta, visto che vi sono ragioni equamente distribuite tra il “sì” e il “no” a Draghi. I “governisti” del triumvirato Beppe Grillo-Giuseppe Conte-Luigi Di Maio (Vito Crimi è out perché pare che di lui Grillo non si fidi per il suo fare asse con Davide Casaleggio) sostengono che, pur turandosi il naso, bisogna restare in partita. La concreta possibilità che Mario Draghi possa fare bene fa precipitare le aspettative degli oppositori per un futuro dividendo politico, da riscuotere nel caso di un suo (improbabile) fallimento. Consentire che siano soltanto i partiti che l’avranno appoggiato a beneficiare dei risultati ottenuti da Draghi, per i “governisti”, sarebbe un errore esiziale.

C’è poi in ballo la tenuta dell’alleanza con il centrosinistra. Decidere di separare i propri destini da quelli del Partito Democratico, che appoggia, seppure con qualche mal di pancia di troppo, il tentativo dell’ex Governatore della Banca centrale europea, avrebbe serie ripercussioni sulle chance grilline di sopravvivenza alle ormai prossime amministrative nelle principali città italiane. Inoltre, la presenza in maggioranza consentirebbe al defenestrato Giuseppe Conte di provare a ricostruirsi da leader di riferimento della coalizione tripartita Pd-Liberi e Uguali-Cinque Stelle (esclusa Italia Viva) che ha sostenuto fino in fondo il “Conte bis”, sfruttando la narrazione del maggior peso parlamentare del centrosinistra nella formula comprensiva dei Cinque Stelle rispetto agli apporti aggiuntivi di Forza Italia e Lega. In ultimo, stare dentro significa portare a casa uno o due ministeri, sempre che Mario Draghi non decida di fare a meno del personale politico. Com’è noto, il potere logora chi non ce l’ha. E Di Maio, al pari di altri protagonisti della svolta governista dei pentastellati, non è tipo da rughe in volto e borse sotto gli occhi.

Ma anche i “no” hanno le loro buone ragioni strategiche. Scegliere di stare all’opposizione sarebbe un tentativo in extremis di recuperare un briciolo di credibilità presso l’elettorato originario. Tornare a fare i duri e puri, dopo quello a cui il Paese ha assistito negli ultimi tre anni, non sarà una passeggiata ma si può fare sempre conto sulla memoria corta della gente. D’altro canto, cosa ha da perdere il Movimento? Il vertice grillino è perfettamente consapevole che alle prossime elezioni la truppa parlamentare pentastellata sia destinata a liquefarsi. Una possibilità di ripresa il Cinque Stelle l’avrebbe avuta grazie all’effetto trascinamento della popolarità di Giuseppe Conte. Ma sarebbe stata necessaria la permanenza a Palazzo Chigi di un “Giuseppi” organico al Movimento almeno per un tempo prossimo al passaggio elettorale. L’avvento al governo di Mario Draghi cancella tale scenario: chi volete che tra qualche mese si ricordi di Giuseppe Conte premier? La politica è occupazione di spazi. Attualmente, il perimetro della costituenda maggioranza si presenta intasato per effetto della convergenza di forze da sinistra e da destra. Al contrario, il campo dell’opposizione è desertificato, con la sola presenza di Fratelli d’Italia a presidiarlo.

Logico che i grillini fautori del no, rappresentati dai volti noti di Alessandro Di Battista e di Barbara Lezzi, la pasionaria del Salento, ritengano di poter recuperare un’ampia agibilità politica, collocandosi all’opposizione di Draghi. Comprensibile, invece, il timor panico di Grillo e dei suoi adepti per un diniego della piattaforma Rousseau al soccorso pentastellato a Mario Draghi. Una decisione in senso negativo, però, non determinerebbe meccanicamente il cambio di posizione del Cinque Stelle. In un contesto dove tutto è ipocritamente finto, compresa la devozione assoluta alla democrazia dell’uno-vale-uno, il garante del Movimento, Beppe Grillo, ha il potere di ribaltare il verdetto degli iscritti, azionando la clausola statutaria (articolo 4) che gli conferisce il diritto di chiedere la ripetizione della consultazione “che in tal caso s’intenderà confermata solo qualora abbia partecipato alla votazione almeno la maggioranza assoluta degli iscritti ammessi al voto”. Un comodo escamotage per bypassare il giudizio della base dei militanti, anche a prezzo di una dolorosa scissione. È infatti presumibile che i fautori del “no”, se dovessero essere defraudati della voce degli iscritti o se si vedessero negare la possibilità di aderire alla salomonica proposta di Alessandro Di Battista per un voto di astensione al Governo Draghi, avanzata per scongiurare l’implosione del Cinque Stelle, potrebbero andarsene ugualmente sbattendo la porta. Comunque la si giri, è la nemesi della storia che si è messa all’opera. Grillo e i suoi hanno spudoratamente giocato a dadi con la fiducia degli italiani. E adesso cominciano a pagarne il conto. Per il saldo finale toccherà attendere il responso delle urne che, prima o poi, arriverà. E sarà implacabile.

Aggiornato il 11 febbraio 2021 alle ore 09:35