
La designazione di Mario Draghi sta provocando un terremoto dentro e fuori partiti e movimenti, costretti a cambi di passo, a modificare non solo atteggiamenti ma contenuti della loro offerta. Ad una analisi, anche le più superficiale, del panorama politico italiano di oggi, è indiscutibile la presenza fra quelli di allora di un solo partito: la Lega. Fratelli d’Italia è un’altra storia. Ma a costo di essere ripetitivi, occorre segnalare un’altra scomparsa politica, quella di un centro ispirato alla moderazione, che fino alla metà dei Novanta fu occupato dalla Democrazia Cristiana di Amintore Fanfani, Aldo Moro, Mariano Rumor, Emilio Colombo e, successivamente da Forza Italia di Silvio Berlusconi. Il centro è di per sé moderato come luogo obbligato, come baricentro per scelte di governo, di alleanze, di dialettiche. E con i partiti obbligati a convergere in funzione di alleanze anche con premier tipo Bettino Craxi, non dello Scudo crociato, ma sempre indirizzati in quel luogo della politica. Come è stato più volte ricordato, il sistema democratico della Prima Repubblica ha retto per cinquanta anni e i partiti sono stati i principali “artefici” di questa durata. Per cui il detto che si governa dal centro rischia di diventare un luogo comune, se non fosse che in questi anni e, soprattutto in questi giorni, l’assenza di quel baricentro non soltanto mostra la fragilità del sistema, ma produce qualunquismo, trasformismo, cambi di casacca praticamente sconosciuti, se non per una decina, nella Prima ed oggi dilaganti a centinaia nella Seconda Repubblica.
Non vuole essere il nostro un rimpianto dei bei tempi andati, ma è indubbio che un richiamo appaia più che utile per una riflessione sui tempi nostri e, dunque, sulla politica in atto da decenni. O meglio, sull’assenza dei partiti e sulla morte, come si va sostenendo, della politica tout court. La cancellazione per mano giudiziario-giustizialista dell’intero comparto partitico risale agli anni Novanta. E non è un caso che al governo di quei tempi, sotto la presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, sia stato chiamato Carlo Azeglio Ciampi, un non eletto in Parlamento, un tecnico, uno estraneo alla politica. Ed è facile ma semplicistico paragonarne la nomina di allora a quella di oggi. In realtà, sia lo stesso Ciampi che soprattutto Mario Draghi non potevano essere estranei alla politica, con la differenza che il primo aveva ancora a che fare con i partiti, il secondo, invece, con la loro mancanza. Ad eccezione della Lega nata dall’intuizione di Umberto Bossi di forgiarne, a nome del Nord, la forza e la presenza. La Lega, con l’aggiunta di Nord, non è stata contagiata dalle mode né, tantomeno, dall’andirivieni di clientes e, lentamente, grazie soprattutto a Berlusconi e sotto la leadership di Matteo Salvini, ha abbandonato le native spinte nordiche, ha accettato il cambiamento, diventando forza di governo ma al tempo stesso conservando la forma, la struttura di partito. Senza mai farsi incantare dalle sirene del movimentismo, pur conservandone caratteri e modalità senza che incidessero sulla propria identità.
Con la caduta di Giuseppe Conte si è chiusa una parentesi e si è aperta una fase assolutamente nuova, storica, che rimembra gli anni Novanta, con un prima e con un dopo, con cui le forze politiche sono costrette, bon gré mal gré, a fare i conti. Sul partito di un Nicola Zingaretti con l’ambizione di occupare il centro (per non parlare su un M5S letteralmente bombardato) l’effetto Draghi ne ha ulteriormente evidenziato la perdita di identità, causa non ultima di un collasso tanto più incomprensibile e disarmante quanto più si insista nella cocciutaggine dei suoi dirigenti nell’alleanza catastrofica con i pentastellati. Propugnatori, fra le tante sciocchezze, del tragicomico uno uguale a uno.
Anche il centrodestra non è estraneo ai sussulti provocati dalla bomba di Super Mario (e del Quirinale) costringendone i componenti ad una convergenza al centro ma con differenziazioni per dir così storiche che, come si prevedeva, proprio le consultazioni al Quirinale rendono ancora più visibili. A cominciare dal prevedibile, quasi entusiastico “sì” di Forza Italia al “nì” di Giorgia Meloni e a al più o meno forzato sì di Matteo Salvini. Nel centrodestra, come altrove, le spinte e le contro-spinte ci sono sempre state ma, nel caso della Lega, hanno un peso ancor maggiore le spinte provenienti dall’interno di quel popolo del Nord di imprenditori, che la pandemia rischia di mettere in ginocchio mentre non poche aziende hanno chiuso i battenti e licenziato gli operai. Non è casuale che, da una lettura attenta dei sondaggi, il consenso a Mario Draghi provenga soprattutto dal Nord, dal mondo del lavoro e delle imprese che guardano con fiducia al futuro governo Draghi, sia per le indubbie e comprovate capacità del suo premier, sia per lo spettacolo inverecondo offerto dalla politica, guidata da Conte, nelle ultime settimane. Mario Draghi è una sorta di zattera nel mare tempestoso di una crisi e dei suoi cambiamenti, in atto e futuri. E a questi non potrebbe o dovrebbe essere estraneo Matteo Salvini che, qualora imprimesse una svolta alla Lega verso il centro, potrebbe diventare proprio lui quel baricentro di cui si rimpiange l’assenza.
Aggiornato il 08 febbraio 2021 alle ore 10:53