Il “caso Regeni” e il “caso pescatori” hanno in comune soltanto il fatto di costituire una cartina di tornasole del credito goduto o del discredito patito dallo Stato italiano nei rapporti internazionali. Lo straziante assassinio di un giovane connazionale incolpevole è profondamente diverso dalla cattura e detenzione dei pescatori, anche stranieri, ingaggiati da armatori italiani. Un brutale omicidio di Stato non è equiparabile al piratesco sequestro di persone e cose perpetrato dall’altro pseudo Stato. Eppure una sostanziale cortina d’impotenza nazionale copre i due delitti internazionali.
La “politica delle cannoniere”, seppure desueta al giorno d’oggi, era comunque una dimostrazione di forza degli Stati che se lo potevano permettere. L’Italia, da sola, oggi non si può permettere quasi niente. Tuttavia, nel caso dei pescatori, una cannoniera basterebbe a trarre in salvo gli ostaggi, senza perdite, anche oggi. Nel caso Regeni occorrerebbe una guerra, impossibile nelle condizioni date. In questo caso, l’Italia è costretta a piegare la testa e contentarsi di condannare con una platonica sentenza qualche agente del governo egiziano. In quel caso, un’azione o la minaccia di azione “manu militari” potrebbero bastare, anche in barba alle prevedibili proteste dei protettori del dittatore carceriere. Ma siamo governati da chi sappiamo e purtroppo siamo il popolo che siamo.
Pretendiamo rispetto purché non costi nulla in termini di uomini in divisa, come non costa nulla la faccia feroce e l’indignazione in diretta. Anzi, rende politicamente. Preferiamo sempre la trattativa riservata e il pagamento di esosi riscatti. Quando bisognerebbe agire rimettendoci, magari tutto, ma salvando la dignità, la politica tace, volta la faccia altrove, strizza l’occhio e assicura che i soldi sono pronti per la “transazione umanitaria”. Diplomazia e forza vanno a braccetto negli Stati seri, al contrario di quieto vivere e dignità. Pagare il pizzo ai governi mafiosi non conviene.
Aggiornato il 16 dicembre 2020 alle ore 09:32