Conte: tanto va la gatta al lardo...

Mai come nell’ultima seduta il Senato ha offerto, come in uno specchio impietoso, l’immagine di ciò che ci passa il convento della politica. Convento si fa per dire, poiché i commenti fuori onda (vedi l’ottimo Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera) hanno completato una narrazione a strappi come nel corso di una ricreazione. Non è per infierire, semmai per prendere nota che in quell’aula si sono sciolte le vele dell’eloquio solenne a favore di un vento in tempesta: per Giuseppe Conte. Certo, il premier, col fazzoletto nel taschino, ascoltava impassibile ma si è capito che quell’ascolto produceva in lui più di un fremito, più di una scossa, più di un allarme. Non solo o non soltanto per i puntuali cannoneggiamenti renziani quanto per il clima al quale la sbrindellata compagnia pentastellati aggiungeva note dissonanti già nei primi piani di una Paola Taverna, privata dell’apriscatole col quale minacciava allora di aprire il Parlamento. Non si vuole da parte nostra sparare sulla Croce Rossa, su Conte. Il fatto è che nell’incalzare delle accuse di Matteo Renzi si coglieva l’eco degli assensi del duo silente Nicola Zingaretti-Luigi Di Maio e, qualche osservatore, non poteva fare a meno di notare che quelle mazzate erano gradite a un Matteo Salvini (che ha stretto la mano all’ex presidente del Consiglio) e a una Giorgia Meloni, che s’è lasciata prendere la mano da un comizio più degno della piazza che di un’Aula severa.

Sono giunte al dunque le tecniche messe in moto da Conte per aggirare i problemi, mediare i contrasti, sublimare le contraddizioni assorbendo con astuzia le differenze per governarle in nome e per conto dell’emergenza e, soprattutto, di sé stesso. Perciò nessun cambio di passo, nessuna verifica, nessun rimpasto, sono arnesi della vecchia politica, diceva Conte qualche giorno fa. Repliche pacate ma astute accompagnate da proposte di piramidali consessi manageriali per stare in cima lui, sempre e soltanto lui. Una sorta di gioco delle tre carte, ma pericoloso quando viene scoperto e contestato. La furbizia, la sua, di tipo sub-politico nel senso che non basta la tecnica, anche la più sopraffina, se manca una strategia, una visione, una proposta, un progetto. Del resto, questa è la vera mancanza del M5S. Al più grande appuntamento come il Mes che ci ha dato  l’Europa, la reazione grillina si è contorta nelle giravolte e negli spergiuri dopo quelli su Tav, Tap, Ilva ed ora, appunto, sul Mes, un gioco, una assonanza di sigle dietro cui si scorgono opere grandi e importanti che il populismo antipolitica pentastellato aveva elettoralmente ripudiato in nome dell’onestà, per guadagnare facili consensi salvo poi condividere sigle e scelte e praticarle una volta al Governo, col classico trasformismo di quei moralisti da quattro soldi che fanno dell’onestà un uso alle proprie convenienze, sfuggendo loro il principio che il tradimento delle promesse è pura e semplice disonestà.

In questo quadro sempre più mosso, Giuseppe Conte sperava (e spera) di cavarsela con qualche rimedio, qualche promessa, qualche impegno ma è un compito quasi impossibile poiché la stessa parola rimpasto, a sentire Renzi, non serve più mentre incombe l’altro termine: crisi. Ovvero dimissioni, le sue. Chi vivrà vedrà come si usa dire, sullo sfondo di una pandemia feroce e crudele che non risparmia nessuno e che meriterebbe una risposta alta, forte e concreta di cui questo Governo non sembra essere all’altezza. Cosicché, l’assalto senatoriale a proposito dei fondi e dell’utilizzo del Recovery fund e plan, ha impietosamente svelato che il re è nudo. E che le volpi, prima o poi, finiscono in pellicceria.

Aggiornato il 14 dicembre 2020 alle ore 09:23