Campania: giallo, arancione o rosso?

La Campania e il Covid: una telenovela a tinte noir. A sentire i drammatici proclami del governatore, Vincenzo De Luca, verrebbe naturale pensare a un lockdown hard, da zona rossa, per fermare la corsa del virus. Lo chiedono i sanitari che temono di soccombere sotto la pressione dei malati che affollano le sale d’attesa dei pronto Soccorso cittadini. Effettivamente, la notizia del corpo senza vita di un malato sospetto di Covid rinvenuto nei bagni del pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli a Napoli è raccapricciante, quanto lo sono immagini trasmesse dai media delle autovetture bloccate per ore nei viali degli ospedali e trasformate in lettighe di fortuna per gli ammalati non collocabili all’interno delle strutture sanitarie ormai sature. Roba da Terzo mondo. Eppure, il Governo, riguardo alla decisione di applicare la zona rossa alla Campania, mostra il cuore tenero preferendo un accomodante giallo, che significa: il problema c’è ma può essere gestito con qualche attenzione in più. Un comportamento inspiegabile, perché?

Sull’argomento, molti hanno voluto dire la loro. Dai politici, agli scienziati, ai giornalisti: è il bello della società della comunicazione. Il compianto Giorgio Gaber definirebbe “diarrea cogitativa liberatoria” quel magico meccanismo che scioglie i freni inibitori alla voglia di parlare, anche se non si ha niente di sensato da dire. La folta schiera degli sputasentenze ritiene di aver individuato il motivo dell’indecente rimpallo di responsabilità tra Stato e Regione: la paura di mettersi contro la Camorra che non vedrebbe di buon occhio, per il buon andamento dei propri affari sporchi, la chiusura del territorio. È un’idiozia gigantesca. Chi conosce un minimo la storia della criminalità organizzata campana sa che l’organizzazione possiede una duttilità tale da adattarsi a tutti gli scenari e a trarne sempre il massimo profitto. I tuttologi della porta accanto pensano che i criminali si stiano stracciando le vesti per i cali dei proventi dallo spaccio di stupefacenti. Non hanno capito niente. I clan si sono portati avanti con il lavoro: hanno messo all’opera i “colletti bianchi”, i professionisti organici al sistema criminale, per studiare le modalità più sicure e inattaccabili con le quali entrare nel grande business del Recovery fund. Alla camorra potrebbe financo tornare utile un periodo di chiusura totale perché ciò favorirebbe la Campania in sede di ripartizione regionale dei contributi messi a disposizione dall’Unione europea. Piuttosto che strologare di stupidaggini farcite di luoghi comuni e imprecisioni, i tuttologi potrebbero applicarsi a verificare quali e quanti soggetti della “terra di mezzo” tra Stato e anti-Stato si stiano attivando professionalmente per essere pronti, nel formale rispetto delle leggi e delle procedure, con le progettazioni da candidare all’atto di pubblicazione dei bandi regionali e nazionali a valere sui fondi europei.

L’informazione poi è indietro di anni luce nel raccontare all’opinione pubblica la nuova dimensione della criminalità. Se per Carlo Levi Cristo si fermò a Eboli, per i media e gli opinionisti trendly la rappresentazione della camorra si è fermata a Saviano (Roberto). Oggi i reati di tendenza per la criminalità organizzata non sono i furti e i borseggi, ma l’associazione a delinquere finalizzata alla truffa ai danni dello Stato e dell’Unione europea, il trasferimento fraudolento di valori e riciclaggio, l’estorsione, l’usura, lo scambio elettorale politico mafioso, la turbata libertà degli incanti, oltre al traffico internazionale di droga che per le mafie del Mezzogiorno è un evergreen. Sgombrato il campo dall’idiozia in salsa Gomorra, la causa del tentennamento istituzionale nel caso Campania è endogena alla dinamica politica. Essa va ricercata nella strutturazione del successo elettorale di Vincenzo De Luca alle regionali dello scorso settembre. Una lettura superficiale del “fenomeno De Luca” ha offuscato le ragioni reali della vittoria. Lo “sceriffo” non ha trionfato grazie al voto d’opinione, come erroneamente è stato detto e scritto. Il cosiddetto voto di pancia per il De Luca-Masaniello è stato poco significativo. Il grosso del consenso è giunto da un lungo processo di ricomposizione di interessi localistici estremamente frammentati. Tali interessi sono stati rappresentati da una classe politica radicata sui territori e incistata da decenni nelle meccaniche del potere, ben al di sopra delle differenziazioni partitiche, che nella specificità della Campania sono spesso solo di facciata. Gli interlocutori di De Luca sul territorio sono i Ciriaco De Mita, i Clemente Mastella, e la pletora di ex amici di Forza Italia che al momento debito fanno pesare il proprio pacchetto elettorale nel negoziato avviato indifferentemente con entrambi gli schieramenti, di destra e di sinistra, salvo a scegliere la soluzione più conveniente al soddisfacimento delle proprie istanze di potere locale: è la legge di mercato, della domanda e dell’offerta. Costoro si potrebbero definire cacicchi, per il carattere tribale-feudale della mediazione esercitata nel rapporto tra istituzioni centrali e potere periferico delle provincie e delle municipalità. I cacicchi, a loro volta, non sono padroni assoluti delle realtà territoriali sulle quali hanno presa ma devono operare compromessi funzionali alla tenuta di un adeguato grado di consenso personale. Per intenderci: se fosse decisa la zona rossa per tutta la Campania, il commerciante di Ceppaloni o il bottegaio di Nusco non andrebbero a protestare sotto le finestre di De Luca ma se la prenderebbero con i politici che conoscono da sempre e che sono il loro riferimento nel rapporto con le istituzioni: Clemente Mastella e Ciriaco De Mita. Ora, questi stimati personaggi non desiderano entrare in rotta di collisione con i propri serbatoi elettorali e allora dicono a De Luca: se è lockdown per tutti in Italia passi, ma se è solo per i nostri territori non ci stiamo a pagare il conto di tasca nostra. E a fronte dell’obiezione che Napoli rischia di scoppiare per i tanti casi di positività che si registrano tra la popolazione, i cacicchi rispondono: allora si chiuda Napoli e si lasci in pace il resto.

Ma l’egoismo del cacicco di paese soccombe se ad esso si contrappone un egoismo più forte che è quello di un altro cacicco: il sindaco del capoluogo e della città metropolitana, Luigi De Magistris. Lui teme che un provvedimento ad hoc per la sola città capoluogo innescherebbe una protesta sociale violentissima. Gli operatori economici e i lavoratori gli contesterebbero: perché soltanto noi? Un esempio per capirci. Quando alcune settimane orsono scoppiò la rivolta ad Arzano, cittadina dell’hinterland napoletano, i manifestanti intervistati dagli inviati dei media nazionali si lamentarono del fatto che il provvedimento di chiusura totale del territorio a seguito della scoperta di un focolaio di propagazione del virus avesse colpito solo la loro cittadina e non anche le zone limitrofe. I politici che hanno costruito la rete di consensi per lo “sceriffo” si trovano a stare tra l’incudine e il martello. Essi vorrebbero che fosse un provvedimento su scala nazionale a togliergli le castagne dal fuoco dello scontento dei propri fidelizzati. La convinzione diffusa nella classe politica locale è che l’ancestrale diffidenza del cittadino meridionale-suddito verso lo Stato centrale-nemico agisca da esimente nella ricostruzione della catena delle responsabilità in capo al decisore politico. Ma il Governo, che vive su scala nazionale le medesime contraddizioni che paralizzano l’azione di governo di Vincenzo De Luca, ha imboccato la strada del disimpegno dalle responsabilità dirette trasferendo l’onere della decisione sui livelli di lockdown alla neutralità apparente di un algoritmo, strutturato sulla base di 21 indicatori di misura individuati dai mitici “esperti” scientifici. Si direbbe: tutto secondo spartito, visto che la cosa più salutare per la combriccola che guida il Paese resta la più semplice: decidere di non decidere. Finché si può.

Aggiornato il 13 novembre 2020 alle ore 09:28