
Adesso anche Matteo Salvini vuole la rivoluzione liberale. O, come si preferisce da più parti, essere considerato un autentico liberaldemocratico. Che è più chic, più politicamente corretto.
È una sorta di liberi tutti, pardon, liberali.
Naturalmente si comincia da Piero Gobetti, forse anche perché il suo era un liberalismo sui generis e, per di più, decapitato dal fascismo. Era, è meglio risalire nel tempo e incontrare un vero campione del liberalismo non a parole, colui che in Italia seppe coniugare questa parola con la pratica, con un impegno governativo, ponendola al servizio di un grande disegno: l’Unità d’Italia. Diciamocelo, Camillo Benso, conte di Cavour resta il campione storico e sempre attuale anche facendolo scendere dai monumenti che l’hanno imbalsamato, ma il suo insegnamento resta vivo e vitale. Soprattutto oggi.
Parlando e straparlando di rivoluzione liberale qualcuno osserva impietoso che questa rivoluzione “non è mai stata una pratica, non è più nemmeno una teoria, è una frase fatta” (Mattia Feltri). O l’araba fenice per cambiare pelle, per stare ben composti e bene accetti al tavolo europeo. Per un essere più un convitato di pietra.
Rischiamo tuttavia di essere sommari e riduttivi alla luce dell’impressionante sommovimento come il Covid-19 che da mesi ha pesato anche sulla politica e ha rimpicciolito le stesse parole identitarie e le infuocate opposizioni rendendole inerti, superate. Populismo e antieuropeismo sembrano appartenere ad un’epoca lontana mentre guadagna i primi posti la macchina governativa e le stesse funzioni pubbliche hanno più forza di controllo dei comportamenti sociali privandoci, in nome dell’emergenza, della libertà di movimento, di frequentare gli amici, persino di costringerci a vivere lontani dalle nostre abitazioni. E sono riduzioni di libertà a fronte delle quali ha prevalso l’obbedienza, ma le mortificazioni della libertà agiscono di rimbalzo sulle potestà di governo che ne potrebbero fare un’abitudine ponendo a rischio proprio il liberalismo o, per dirla come va per la maggiore, la liberaldemocrazia.
L’approdo di Salvini, che pure va salutato con soddisfazione, non potrà prescindere da questo, al di là delle necessità che premono sulla sua scelta intesa a sgombrare la strada per l’altro approdo, in quel Partito popolare europeo che lo gratificherà delle credenziali anche e soprattutto per il suo probabile ingresso a Palazzo Chigi mentre, già oggi, deve misurarsi dall’opposizione, con una trattativa europea niente affatto conclusa da parte di un Governo che dà l’impressione, oltre che di distributore di aiuti a pioggia, di restare vittima dei suoi slogan, spaventato da una mission impossible.
L’approdo di Salvini va salutato con soddisfazione ma anche la sua ha i contorni di una missione giacché la stessa opposizione non può non adeguarsi alla svolta confrontandosi da subito con una trattativa niente affatto conclusa e alla ricerca di compromessi nelle regioni in gran parte guidate da leghisti, costretta a utilizzare risorse per investimenti lungimiranti. Altro che bonus mirati, altro che statalizzazioni imposte da un grillismo moribondo.
Se la rivoluzione liberale vuole avere un senso è con questa sfida che dovrà misurarsi. Altrimenti sarà un boomerang.
Aggiornato il 09 ottobre 2020 alle ore 16:54