
Qui non si vuole sparare sulla croce rossa, ma all’osservatore con un minimo di attenzione non può sfuggire l’insufficienza di leadership, a cominciare da quella a Palazzo Chigi. È dunque un riaffacciarsi alla nostra memoria quel Winston Churchill che contro la minaccia hitleriana rispose, alla Camera dei comuni e al Paese, che prometteva loro “soltanto sangue, fatica, lacrime e sudore” ma che già alle prime vittorie contro la “mostruosa tirannide” e rivolto al sindaco di Londra aggiungeva: “Non è la fine. Non è neppure l’inizio della fine. Ma forse è la fine dell’inizio”.
Parole entrate nella storia, come chi le pronunciò. Riconosciamo che è quasi impossibile imitarlo, ma il ricordo di quelle parole poteva costituire il filo conduttore dapprima contro la minaccia di uno sconosciuto, temibile virus ed ora nei confronti della non vicina vittoria e sullo sfondo di una ripresa che procede a stenti e, soprattutto, con gli attori in ordine sparso. Nella maggioranza, innanzitutto. Da un rapido monitoraggio della stessa, il ruolo primario spetta alla implosione grillina che non è difficile da decifrare ma comporta passaggi interni – dall’antipartitismo alla costruzione di un partito – inevitabilmente complessi la cui conclusione, in genere, conduce inesorabilmente a una scissione (prima o dopo i pomposi Stati generali) con rischi per la tenuta del Governo Conte2.
Del resto, se la tecnica di Nicola Zingaretti è riuscita a porre sotto la cappa protettiva e “nutriente” del Governo una parte dei 5 Stelle con Luigi Di Maio in testa, continua ad avere a che fare con le incertezze e i ritardi di Palazzo Chigi per una risposta riformista e coerente al gesto europeo del Recovery fund che pretende il massimo rispetto nell’apprestamento di interventi vorremo dire a regola d’arte. Il punto dolente sta nella presenza sempre attiva di quel partito della spesa che ha nei pentastellati la punta di diamante nel dargli sempre il primo posto grazie all’ingerenza dello Stato e relativi interventi a pioggia che sono l’esatto contrario di una politica in grado di assicurare quella “fine di un inizio” di churchillana memoria. E pure se il Partito Democratico può, dopo le Amministrative, vantare un successo rispetto al Di Maio del “chi si contenta gode” per la vittoria nella “sua” Pomigliano d’Arco, non è affatto esente dagli impulsi statalisti benché si vanti dello sventolamento della bandiera liberaldemocratica, divenuta di moda nella sinistra e alla quale, peraltro, si riferiscono con maggiori ragioni sia Matteo Renzi che Carlo Calenda che Emma Bonino. Un trio anch’esso che procede in ordine sparso, al di là dei rumors, più o meno interessati, che darebbero i tre federatori, con chi ci sta, su un ramo moderato e ovviamente liberaldemocratico della pianta piddina. Una proposta degna di un altro ramo: della fantapolitica.
Specularmente, nel centrodestra non sono rose e fiori non tanto o non soltanto per la battuta d’arresto di Matteo Salvini nel “suo” nord – di cui è emblematica la perdita di quella Legnano patria di Alberto da Giussano – ma per le conseguenze interne dove non sono da escludere riflessi di opposto genere fra un Luca Zaia, chiamato il Doge per i suoi successi in nome della originaria autonomia del Veneto (e del Nord), e Giancarlo Giorgetti con il suo invito a Salvini di cambiare la fallita politica della spallata con una inversione di rotta verso una centralità pure essa liberaldemocratica.
Un rotta non facile, si capisce, in cui l’ordine sparso è forse meno visibile che nel centrosinistra ma rivela, anche nei successi di Giorgia Meloni, compresenze concorrenziali per Salvini. In effetti solo su Forza Italia può storicamente garrire quella bandiera ma la sua reductio ad unum, cioè a Silvio Berlusconi, è la prova più evidente che nel nostro Paese ciò che manca è davvero un partito liberaldemocratico degno di questo nome. Meglio chiamarlo semplicemente liberale.
Aggiornato il 09 ottobre 2020 alle ore 12:22