Quale sia il programma della maggioranza di governo nessuno lo sa tant’è vero che il suo iter a stop-and-go ne segnala, innanzitutto, le idee confuse e talvolta pericolose.
Si può dire che già con la realizzazione dell’accordo col Movimento 5 Stelle, il segretario del Partito Democratico aveva posto fondamenta incerte e cedimenti non lievi, a cominciare dalla stessa “lottizzazione” ministeriale con l’attribuzione di ministeri chiave, Affari esteri e Giustizia, a due esponenti pentastellati, l’uno inesperto del tutto del settore, l’altro versato nel più patente giustizialismo.
I guai sono iniziati da subito e già Luigi Di Maio faceva i suoi giri di valzer con la Cina piuttosto che con l’Ue, un occhiolino al Venezuela e la faccia severa agli Usa, mentre il populista Alfonso Bonafede smontava letteralmente quella prescrizione voluta precedentemente da un ministro del Pd. Tutto questo nel silenzio-assenso del Pd e del suo segretario.
Già nell’accordo dello scorso anno, il M5S aveva rivelato tutte le sue tendenze antiparlamentari e antipartitiche pontificando il ridicolo e micidiale uno uguale a uno come paradigma di quella speciale “democrazia del popolo” unica in Occidente e diffusa, non a caso, in Sud America.
Questo ed altro ancora conteneva quell’alleanza di governo, formata con l’unica ragione di impedirne l’accesso a Matteo Salvini e conservando un Parlamento tale e quale per il post Mattarella, donde la fragilità intrinseca e le verifiche a scadenza settimanale di un premier Giuseppe Conte, allenato in tali manovre e specializzato nei rinvii.
Un programma, come si diceva, senz’arte né parte con, in peggio, le velleità stataliste sia di Nicola Zingaretti che (soprattutto) di Beppe Grillo, che in questi giorni ne teorizza ulteriori e più gravi. La verità è che nel corso di un anno, Zingaretti ha conservato un silenzio pressoché assoluto in nome di un lasciar fare-lasciare andare, colpito tuttavia dalla scissione di un Matteo Renzi con assidue punture di spillo a Conte e ora, alla vigilia delle elezioni amministrative, postosi di traverso con propri candidati il cui scopo è, appunto, un ostacolo alle ambizioni zingarettiane.
Elezioni che non potevano non risvegliare all’interno del Pd volontà di presenze accompagnate da nervosismi di cui si è fatto interprete il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, con una critica frontale all’operato di Zingaretti del quale si mormora, tra l’altro, di una “promozione” al Governo con un provvidenziale rimpasto.
Il quadro è ulteriormente difficile per il segretario del Pd, accusato di aver ceduto con i grillini sulla riforma del taglio dei parlamentari (che il Pd non aveva votato) abbinata impropriamente ad un referendum funzionale al populismo demagogico di un M5S che, proprio su quel taglio drastico, non ha approntato necessarie “riforme” conservando, tra l’altro, un bicameralismo puramente ripetitivo.
L’appello di Zingaretti all’unità si rivolge ad una platea stanca e divisa sul referendum, con manifesti per il sì e per il no, un interno di partito in cui serpeggiano dissensi per ora non eclatanti ma sintomi chiari di una opposizione destinata, prima o poi (qualcuno dice già nel mese di settembre), a provocare grossi guai al segretario del Pd.
Aggiornato il 25 giugno 2020 alle ore 10:50