Una passerella per la vanità di Conte

La festa deve avergliela guastata la magistratura bergamasca, ma non è certo che Giuseppe Conte stia facendo qualche riflessione autocritica a proposito del profluvio di decreti assunti in questi 100 giorni praticamente senza un vaglio del Parlamento, spesso neppure dei ministri e, comunque, in piena solitudine, a parte le innumerevoli task force che si è posto al fianco.

Il fatto, in un certo senso curioso, è che nella pioggia decretizia era assente proprio la decisione per quella “zona rossa” il cui rimpallo di responsabilità fra Governo e Regione Lombardia era già stato fissato su Palazzo Chigi da una pm. Naturalmente, e da garantisti sempre e comunque a differenza dei suoi amici giustizialisti, Conte è del tutto innocente, almeno fino a prova contraria. Si dice ora, da parte di Palazzo Chigi, che i leggendari “Stati generali” (pare abbiano cambiato nome) siano propedeutici a risolvere i problemi del Paese.

Secondo alcuni osservatori, vedi Luca Ricolfi, ne saranno l’esatto contrario “producendo, e non solo a parole, ulteriori guasti ad una economia già in declino prima del Covid”.

Non solo, ma alla decantata ripresa economica nella fase della ripartenza, ciò che appare in termini pericolosi è la ripartenza dell’indebitamento. La fantasia immaginifica di Conte, peraltro abbinata ad una analoga “trovata” di Luigi Di Maio con la messa a punto di un piano governativo in materia di esportazioni, si arricchisce dell’ennesima puntata mediatica e spettacolare, uno sport nel quale il Premier eccelle, battendo un maestro del settore come Silvio Berlusconi e, forse, non immemore della lezione di Ronald Reagan che già negli anni Sessanta sottolineava come la “politica è come una industria dello spettacolo il cui scopo principale è di piacere alle folle e il suo mezzo principale è l’artificio”.

E se la politica è uno spettacolo, allora l’idea non è di perseguire la chiarezza, l’onestà, l’etica, ma di apparire come se lo facesse. In effetti, questa edizione degli Stati generali è necessaria, in un momento come l’attuale, a mettere in ombra le vistose carenze di un Esecutivo; serve a prendere tempo, sono il chiacchiericcio alternativo alle responsabilità governative nutrite di promesse e di parole, tante parole retoriche, a loro volta utili all’arte di apparire sostituendo ai fatti che non ci sono, le immagini di sé trasmesse, e non solo nelle ore di punta, da un sistema televisivo, fra Rai e La7, schierato con Conte del quale, tra le altre certezze sondaggistiche, si preannuncia un suo partito personale.

Tutto questo coro, se esalta la sua vanità dell’apparire, rischia di mettere in risalto tutto ciò che si vuole nascondere in quell’alluvione di demagogia da Villa Pamphili e ne è testimonianza la reazione arrabbiata che è toccata proprio al Premier in una sua breve uscita fra la gente vera, reale, concreta e non astratta, non fittizia come le fiction che danno una risposta all’attenzione spasmodica alla propria immagine, ma si risolvono, alla resa dei conti, in un inganno.

Una ripresa c’è, ma in tono e in sostanza assai ridotta, tant’è vero che per il sistema produttivo non s’è visto ancora niente ed è prevalsa una politica assistenzialistica non solo e non tanto dettata dall’emergenza ma da una “ideologia” le cui scelte sono nel Dna di questo Governo con un Partito Democratico che da sempre è incline alla dilatazione della spesa pubblica e con un Movimento 5 Stelle che è il partito cresciuto sull’onda di un’antipolitica tambureggiante ispirata al “no” all’industria – esemplificato dalla tragicomica proposta di Beppe Grillo a proposito di una ex-Ilva da trasformare in un campo giochi – e contrario alla crescita, per non parlare del sottofondo giustizialista che ne anima azione e propositi, come insegna un maestro del settore di nome Alfonso Bonafede.

Aggiornato il 15 giugno 2020 alle ore 09:56