Se il cambiamento resta una parola

L’imperativo, anche in politica, più usato e abusato è sul cambiamento. Facile a dirsi anche se è in larga misura imposto da una vicenda che, peraltro, è ancora in corso. E poi fra il dire e il fare...

L’interrogativo che viene posto, quasi sempre con risposta affermativa incorporata, è se già in questa seconda fase dell’emergenza saremo più buoni.

Domande forse inevitabili all’indomani di quei veri e propri arresti domiciliari che implicavano, con un desiderio di libertà, la constatazione che comunque, se non buoni, siamo e saremo diversi, non fosse altro che per l’avvento delle vecchie abitudini rendendo quasi impossibile il ritorno alla cosiddetta the way we were, il passato, sia pure non lontano, di come eravamo.

Cosicché, l’interrogativo politico più stringente e appropriato riguarda innanzitutto il cambiamento di questo governo non tanto o non soltanto per come si è comportato contro l’epidemia ma nella logica di quel cambio reclamato da quanti invocano una svolta radicale in vista della ricostruzione, obbligante un cambio di passo.

L’impossibilità (a meno di una improvvisa caduta di questa maggioranza) di nuove elezioni richiede da diverse parti l’avvio di una discussone su un governissimo che, tuttavia, non sembra così semplice da costruire per le note opposizioni, a cominciare dalla Lega, anche se nei giorni scorsi un suo prestigioso esponente come Bobo Maroni ha invitato Matteo Salvini (su Il Foglio) a partecipare ad un “governo di salute pubblica” mollando gli ormeggi di quella politica di opposizione fino ad ora condotta senza successo per una chiamata anticipata alle urne, tanto più che “la legislatura durerà fino al 2023” altrimenti sarà per la “Lega una lunga traversata del deserto. Parola di Maroni.

A questa considerazione sarà Salvini a dare una risposta, ma quella più urgente e necessaria è per molti aspetti imposta dalle decisioni del Governo Conte susseguitesi a suon di Dpcm e sull’onda di consigli, meglio di obblighi, delle innumerevoli commissioni di esperti che hanno in larga misura sostituito la già debole politica con delle scelte economiche che, tra l’altro, hanno sollevato dure critiche da Confindustria ritenendole insufficienti e inadeguate ad una effettiva ripresa produttiva. Confindustria che teme non solo la sopravvivenza in atto di una burocrazia invadente e ritardante, ma che guarda con altrettanta preoccupazione alla politica del “bonus per tutti” che, senza scelte appropriate e mirate, sta conducendo il Paese identificandolo con la riedizione di quello Stato padrone i cui danni storici hanno pesato e pesano sula nostra economia. Timore, peraltro, giustificato dalla presenza nel governo di un Movimento 5 Stelle che unisce al suo giustizialismo populista un altissimo tasso di statalizzazione; una miscela i cui danni si sono già visti e si vedranno.

Parlare di un rifacimento del moroteo governo delle larghe intese non è dunque impedito, ma lo stato delle cose in Italia e in Europa suggerisce un’analisi profonda del presente e del futuro in una crisi che è destinata a durare sullo sfondo di una questione sanitaria proiettata in avanti.

Nel contempo, anche le stesse misure restrittive stanno ponendo considerazioni e giudizi, espressi più volte dal nostro giornale, sulle scelte di esperti, validi senza dubbio, ma di un valore che staremmo per definire del giorno dopo. L’epidemia di un virus misterioso eppure non così sconosciuto, ha avuto risposte che esperti e scienziati hanno praticamente fissato nello stare chiusi in casa e nel distanziamento sociale, oltre all’obbligo di mascherine e ai guanti.

Senza offesa: un po’ poco.

Aggiornato il 06 maggio 2020 alle ore 10:56