Giorgio Gaber, lo ricordiamo tutti, cantava “la libertà non è uno spazio libero; libertà è partecipazione”: un verso che divenne lo slogan di una generazione, quasi il programma politico dei postsessantottini. E non solo di costoro, in verità, poiché l’eco di quel verso risuonò pure nei cuori dei tanti altri che, per quanto non giungessero al punto estremo di sognare “la fantasia al potere”, non seppero tuttavia resistere alle sirene di un cambiamento purchessia.
Il verso di Gaber, sebbene efficace come refrain, era nondimeno falso politicamente parlando, perché la libertà consiste esattamente nel godere di uno spazio al riparo da restrizioni e costrizioni. Anzi, più volte l’ho ripetuto altrove, mi piace definire la libertà come la condizione costituita dall’assenza del suo contrario. Vale per gl’individui e per le istituzioni. La teoria e la pratica della separazione dei poteri ne sono la manifestazione eclatante nei sistemi liberali, dove gli organi detentori della potestà di dichiarare la volontà finale del potere ad essi attribuito posseggono altresì la facoltà di sollevare reciprocamente il conflitto di attribuzione, cioè di rivendicare la libertà dell’organo “superiorem non recognoscens” contro l’invasione dell’esclusivo spazio suo proprio.
In quegli anni l’insoddisfazione verso l’assetto della democrazia in atto portò all’accoglimento acritico di una concezione che peggiorava nei fatti ciò che pretendeva di migliorare mediante il superamento del sistema di governo parlamentare, giudicato “formale”, “classista”, “sorpassato”. La spinta ad eliminare i difetti e riempire i vuoti del sistema indirizzava gl’innovatori (per Greci e Romani il delitto di ribellione era espresso con “escogitare novità”!) verso imprecise democrazie popolari o addirittura proletarie e verso precise dittature, con il programma “fare come in Russia” e “la Cina è vicina”. “Partecipazione” fu il postulato, la parola magica che assurse al rango di ideologia, però senza l’idea. “Contrattazione” ne fu il corollario.
La malintesa democrazia della partecipazione e della contrattazione stravolse la natura del Parlamento, ne ridusse lo spazio di libertà istituzionale, ne deformò la fisionomia specifica, ne adulterò e svuotò le funzioni. Con una sorprendente eterogenesi dei fini, lo rese “formale” molto più di quanto lo avessero bollato gli stessi innovatori nelle loro distruttive critiche precedenti.
Datano a quel periodo la legislazione contrattata e le leggi provvedimento, attraverso le quali il Parlamento è stato mutato in un “Grande Amministratore”, quale lo dipinsi già nel lontano 1977. Per esempio, capitava che nella discussione parlamentare fosse fatto notare qualche sgorbio normativo da matita rossoblu e l’errore venisse ammesso dal rappresentante del Governo eppure dichiarato inemendabile “perché frutto di accordi governo-sindacato”. Peggio ancora quando l’accordo interveniva tra le cosiddette parti sociali e depositato alle Camere come un trovatello alla ruota degli esposti, sicché al Parlamento non restava che prendere o lasciare, quasi ratificasse un trattato internazionale. La democrazia parlamentare, invece, è qualificata dalla rappresentanza politica. Significa che, se la normale influenza degli interessi e perfino degli umori dell’elettorato deve aver corso nel fisiologico rapporto tra rappresentanti e rappresentati, con tutto ciò né gli uni dovrebbero poter imporre deliberazioni (legislative e no) totalmente avulse dal contesto delle aspettative popolari né gli altri, sotto pretesto d’aver diritto di partecipare obliquamente ai lavori del Parlamento contrattandone gli esiti, cioè di “dettar legge alle Camere”, dovrebbero potersi sentire autorizzati a tenere a cavezza i loro rappresentanti. Oggi qualcuno potrebbe obiettare che il ragionamento non regge perché l’esempio dei sindacati trascura che hanno perso la potenza illegittima d’allora.
Ciò nonostante, cento altri esempi sono possibili. Del resto stanno sotto gli occhi di chi vuol vedere. Ne basta uno per tutti, macroscopico ed emblematico. È realistico credere che il Parlamento riformi in profondità la giustizia senza la partecipazione e l’accordo della magistratura? Il mito della democrazia partecipativa e della legislazione contrattata ha generato quest’orribile paradosso: i giudici, soggetti solo alla legge, hanno assoggettato i legislatori.
Aggiornato il 17 febbraio 2020 alle ore 17:58